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di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 9 maggio 2015

Oggi consegnata ai Carabinieri la storica villa di via Bernini.
La villa di Riina, in via Bernini, ventidue anni dopo cambia pelle e da “covo” del Capo dei capi diventa la nuova Stazione Carabinieri di Palermo – Uditore. “Un successo per lo Stato”, uno “schiaffo alla mafia”, “la vittoria delle istituzioni”, hanno ripetuto in molti. Considerazioni e commenti che a così tanti anni passati dalle stragi suscitano un sentimento contrastante. Da una parte è comprensibile l’orgoglio di tanti cittadini, militari e rappresentanti delle istituzioni nel consegnare alla collettività un bene confiscato a Cosa nostra. Un simbolo come quello che può essere la casa in cui il capomafia corleonese, assieme alla propria famiglia, trascorreva indisturbato la propria latitanza, che viene restituito a chi lo Stato lo rappresenta (a rendere ancora più preziosa la consegna è l’intitolazione a due martiri come i sottufficiali Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, uccisi nella strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici). Dall’altra però c’è quella profonda amarezza che nasce da quei 18 giorni di “buco” tra l’arresto del padrino e la perquisizione nella sua villa. Dopo più di 20 anni, dopo un processo e dopo tante indagini la verità su quanto accaduto in quei giorni non è mai stata completamente chiarita.
All’epoca si parlò di un equivoco, di un’incomprensione metodologica fra la Procura di Palermo e il Ros, o almeno questa fu la spiegazione ufficiale. Di fatto si arrivò a lasciare priva di osservazione la villa di via Bernini dal 15 gennaio 1993 (giorno dell’arresto di Riina ndr) fino al successivo 2 febbraio quando lo Stato varcò finalmente la soglia del covo del boss. Ma ormai era tardi. La famiglia era riuscita ad arrivare indenne a Corleone e Leoluca Bagarella con altri uomini d’onore fidatissimi erano già entrati togliendo ogni eventuale traccia compromettente addirittura ripitturando le pareti. Ci fu chi ipotizzò la sparizione del famoso “papello” di Riina (le richieste di Cosa Nostra allo Stato per far cessare le stragi ndr) e l’asportazione di un’intera cassaforte contenente chissà quali documenti scottanti. Per la mancata perquisizione furono imputati al processo, e poi assolti, il generale Mario Mori (oggi imputato anche al processo trattativa Stato-mafia) e l’allora capitano Sergio De Caprio (alias Ultimo). Una sentenza che non chiarisce alcuni “buchi neri”.


Ovviamente, oggi di questo nessuno ha parlato o ha sentito il bisogno di dire una sola parola. Basta la presenza del ministro degli Interni Angelino Alfano a rendere tutti più soddisfatti. “Nel linguaggio mafioso, il fatto che un comandante della stazione dei carabinieri abbia fatto della camera da letto di Riina il proprio ufficio è il più grande smacco che un boss possa subire. E’ un messaggio devastante per la criminalità organizzata” ha detto con la solita enfasi, tanto cara ai media. E poi ancora: “Stiamo cercando di accelerare l’assegnazione e la distribuzione dei beni confiscati alla mafia, ma voglio ribadire lo straordinario successo della Agenzia dei beni confiscati che, in meno di sei anni, ha incamerato migliaia di immobili ed aziende”. Poco importa se, secondo quanto scritto nella relazione elaborata dalla Commissione per l'elaborazione di proposte normative in materia di lotta alla criminalità è stimato che “ad oggi falliscono (o sono poste in liquidazione ovvero sono cancellate perché prive di beni) più del novanta per cento delle attività produttive interessate da provvedimento di sequestro seguito da confisca definitiva”. Non solo. Nonostante l’elevato numero di beni confiscati presenti in Banca dati (49.454) persistono diversi elementi di criticità nella loro assegnazione. Ma la giornata delle parole non si conclude qui. E’ sempre Alfano a definirsi “figlio della lezione di Giovanni Falcone” riferendosi alla celebre frase del giudice: “la mafia uccide gli uomini dello Stato che lo stato non è riuscito a proteggere”. A dire il vero, ad oltre vent’anni di distanza dalle stragi, scorrendo l’elenco dei tanti martiri che hanno sacrificato la propria vita, la domanda più immediata è se lo Stato, più che non esser riuscito a proteggerli, non abbia voluto. Una preoccupazione che cresce vedendo come nulla è cambiato, ieri come oggi, nelle strategie di isolamento e delegittimazione verso chi, nonostante tutto, continua a servire lo Stato.
A tal proposito, riferendosi al dispositivo anti bomba - “jammer” destinato al pm Nino Di Matteo, lo stesso Alfano lo ha definito “la migliore tecnologia presente sul mercato mondiale”, sottolineando che si tratta di “una tecnologia compatibile con un regime di vita urbano ed extra urbano nei limiti in cui la tecnologia lo permette”. E quali sarebbero questi limiti? E fino a che punto possono ostacolare il sistema di protezione fornito dal bomb jammer? Domande più che mai aperte e che restano sospese immerse in un trionfo della retorica e dell’ipocrisia.

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