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“Il giovane Berlusconi” - Il documentario in tre puntate è una sfilata di testimoni. Utili a capire l’epopea dell’imprenditore fino al ’94, ma  mancano i soldi a Craxi e l’accordo con i boss

Le serie Netflix sono fatte in modo che lo spettatore aspetti con ansia la prossima puntata, o la prossima stagione. Le tre puntate della docuserie Il giovane Berlusconi ne avranno bisogno di almeno altre sei per raccontare quello che nelle prime non c’è. Ma mi pare non siano previste.

In quelle ora disponibili c’è, ben documentato, il racconto di quanto Silvio sia simpatico, di quando sia affascinante, uomo di charme, imprenditore geniale, costruttore visionario, uomo che inventa la tv commerciale in Italia e poi crea un partito in pochi mesi, vincendo le elezioni. A documentarlo sono immagini di repertorio preziose, che costruiscono un pezzo di storia d’Italia. E testimonianze utilissime di chi era al suo fianco negli anni rampanti, da Fedele Confalonieri a Marcello Dell’Utri, da Adriano Galliani a Fatma Ruffini, da Dario Rivolta a Carlo Momigliano, da Vittorio Dotti a Carlo Freccero. O di chi lo ha visto da vicino, allora, come Gigi Moncalvo e Giovanni Minoli. Con un Mike Bongiorno sublime che fa capire di Berlusconi imprenditore e politico più di molti libri.

Ma mancano troppe cose, nell’epopea del giovane Berlusconi curata da Simone Manetti che racconta le avventure di Silvio dagli anni Settanta alla vittoria elettorale del 1994. E Pino Corrias, che fa il controcanto al racconto, è sminuzzato in un caleidoscopio di immagini e parole.

Del Berlusconi che inizia a costruire, prima a Brugherio e poi a Milano 2, scopriamo che lo fa perché “voleva risolvere il problema della casa”. Non vediamo però la spiegazione del “metodo Berlusconi” fatta da lui medesimo a una platea di imprenditori a cui voleva piacere: “Anch’io ero come voi, giravo gli uffici comunali con l’assegno in bocca”.

Negli anni Settanta, Berlusconi gira per Milano con una Maserati Bora e due auto di scorta. E si fa fotografare con la pistola sulla scrivania. Allora Giorgio Bocca scrisse: “Ma di cosa ha paura questo palazzinaro sconosciuto?”. Non vediamo nella docuserie gli anni della paura di essere sequestrato, quando riceve minacce e avvertimenti e risolve il problema non andando dai carabinieri, ma chiamando a Milano da Palermo un amico dei tempi dell’università, Marcello Dell’Utri, che poi chiama i rinforzi, quel Vittorio Mangano che diviene squisito “fattore” della villa di Arcore.

A proposito: non c’è neanche Cesare Previti, essenziale nell’acquisto di quella villa, sfilata alla giovane orfana di cui era tutore, Anna Maria Casati Stampa. In seguito, Cesare diventa mediatore, a Roma, delle tangenti per comprare sentenze che consolidano la potenza imprenditoriale di Silvio e gli fanno vincere la battaglia per il controllo della Mondadori, scippata a Carlo De Benedetti.

Ci sono i Puffi. C’è nella miniserie l’illustrazione della capacità di Silvio di fare televisione e, insieme, la più fulminante definizione della tv: “È tutto ciò che sta attorno alla pubblicità”. E c’è l’amicizia con Bettino Craxi, essenziale per salvare le reti dai pretori che vogliono togliere i Puffi ai bambini. Ma non c’è il contraccambio: 23 miliardi di lire che partono dalla società All Iberian, che fa parte dall’arzigogolato sistema estero (e segreto) della Fininvest, e arrivano ai conti esteri (e personali) di Bettino Craxi. C’è Stefania Craxi, la figlia, che racconta a suo modo Mani pulite, senza quei 23 miliardi, la più grossa tangente mai arrivata a un singolo uomo politico.

Marcello Dell’Utri ricorre nelle tre puntate della docuserie con interventi preziosi, pieni di notizie, arguzie e ironia. La sua condanna definitiva per concorso esterno all’organizzazione mafiosa Cosa nostra non compare nel “sottopancia”, troppo lunga e macchinosa, anche se potrebbe spiegare qualcosa dei finanziamenti ricevuti dalla Fininvest fin dagli anni Settanta, degli incontri a Milano con Stefano Bontate, il capo di Cosa nostra prima di Totò Riina, dei 200 milioni di lire che partivano da Milano e arrivavano a Palermo ogni anno, “per la protezione delle antenne”, dal 1974 al 1992, e poi dei contatti tra Palermo e Milano durante la rapida gestazione del partito nuovo, di Forza Italia, con casting tv per i candidati e merchandising che rivisto oggi non si riesce a crederci.

È giustificata l’assenza della condanna per frode fiscale, per aver nascosto al fisco “le maggiorazioni di costo, realizzate negli anni, di 368 milioni di dollari”: sono state scoperte dopo il 1994, dunque sono fuori dall’arco temporale che gli autori del giovane Berlusconi si sono imposti.

In quell’arco ci sarebbe però la tessera della loggia P2, che gli frutta il Mundialito in Uruguay, che rompe per la prima volta il monopolio televisivo della Rai e concede a Canale 5 di trasmettere un evento calcistico mondiale; e che gli facilita l’accesso ai finanziamenti e al credito bancario.

Ma lui la buttava in barzelletta: “La tessera me la porta la segretaria dicendo: C’è scritto che lei, dottore, è apprendista muratore. Io ero in riunione con dodici o quattordici collaboratori: tutti scoppiamo a ridere. Ma come, dico io, sono il primo costruttore italiano di città e mi definiscono apprendista muratore? Questo non lo accetto”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano 

Foto © Imagoeconomica

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