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Il consigliere togato: al governo un partito fondato "da un soggetto condannato per concorso in associazione mafiosa"

In ambito nazionale sarà al governo da qui a poche ore, un partito che è stato fondato anche da un soggetto che è stato definitivamente condannato per concorso in associazione mafiosa: il senatore Dell’Utri. Un soggetto per il quale, una sentenza definitiva, attesta che per almeno 18 anni, è stato l'intermediario di un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore e oggi autorevole uomo politico Silvio Berlusconi".
È stata questa la dura analisi esposta dal consigliere togato al Csm Nino Di Matteo durante un seminario formativo del ‘Flc Cgil Camp’ intitolato 'La coscienza è conoscenza. Istruzione e legalità’. L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Centro Studi Paolo e Rita Borsellino e con Proteo Fare Sapere Sicilia. La prima giornata di lavori si è svolta il 20 ottobre all’Hotel Saracen di Isola delle Femmine (Palermo) e ha visto la partecipazione, oltre a quella del magistrato palermitano, di Eliana Romano, presidente di Proteo Fare Sapere Sicilia; Pietro Patti, componente della segretaria della Flc Cgil Sicilia; Claudia Cammarata, presidente dell’Anpi Caltanissetta; Maurizio Muraglia, docente ed esperto di questioni educative e didattiche; Alfio Mannino, segretario generale della Cgil Sicilia.
Durante il suo intervento Di Matteo ha spiegato anche la situazione politica nella Trinacria: “In Sicilia - ha detto il magistrato - comandano e muovono oggi le file della politica, uomini che hanno trascorso molto del loro tempo, negli ultimi anni, nei corridoi e nelle aule dei palazzi di giustizia a difendersi da accuse di contiguità con i mafiosi. Alcuni di quegli uomini politici sono stati condannati, altri sono stati assolti, in altri casi l’indagine è stata archiviata. Ma” - ha continuato - “sempre sono emersi significativi rapporti con esponenti politici di livello; eppure, questi soggetti continuano a muovere le fila della politica in Sicilia".
Mi piace ricordare, e sento il dovere di farlo, al di fuori delle ipocrisie, al di fuori della retorica, al di fuori delle commemorazioni, al di fuori delle navi della legalità e al di fuori delle bandiere” quello che disse “Paolo Borsellino nel 1989 in una conferenza con degli studenti di un liceo a Bassano del Grappa”.
Diceva, il giudice Borsellino, che il dramma di questo Paese sta nel fatto che, a proposito dei rapporti tra la mafia e la politica, se non è dimostrato un reato e quindi non interviene la condanna penale, non si fanno valere le responsabilità politiche di determinate condotte consapevoli. Se non è possibile configurare un reato, se non è possibile provare quel reato, anche se sono provati rapporti consapevoli con mafiosi, in Italia (diceva Paolo Borsellino sin da allora) non scatta mai un meccanismo che faccia valere le responsabilità di tipo politico”.
“I partiti
- ha detto - non escludono dalle liste dei loro candidati questi soggetti, anzi spesso li cercano”.
Secondo il magistrato la situazione dal 1989 ad oggi presenta un evidente peggioramento per quanto riguarda questo aspetto: “Perché dico che la situazione è peggiorata? Perché Paolo Borsellino partiva dal caso in cui i rapporti erano provati ma non erano un reato. Oggi non viene fatta valere la responsabilità politica neppure quando è stato provato il reato, quando sono intervenute delle condanne definitive”.
Per questo il silenzio da parte della politica su questi temi non è più tollerabile.
È necessaria quindi una “rivoluzione delle coscienze, che scuota lo stato di torpore e rassegnazione in cui sembra essere caduto il Paese di fronte a queste situazioni”.
Una rivoluzione che deve coinvolgere soprattutto le nuove generazioni, alle quali deve essere trasmessa “la voglia e la possibilità della conoscenza di quello che è accaduto e accade nel nostro Paese” e “la voglia e la possibilità dell’approfondimento”. Ciascuno di quei giovani, ha detto, ha il potere di “contribuire a sconfiggere quella mentalità”.
In che modo?
Nel momento in cui viene chiamato alle urne elettorali” ad “esprimere un voto secondo le proprie tendenze culturali e politiche. Ma sempre tenendo presente che qualsiasi voto deve essere sempre e comunque espressione di una consapevolezza” che non può “accettare che la politica venga condizionata dalla mafia. Neppure sotto il profilo dell’acquisizione del consenso elettorale. Questo è quello che da cittadino, prima ancora che da magistrato, mi auguro. E ripeto, stiamo vivendo un momento in cui nel Paese si registra un passo indietro a livello politico, nella consapevolezza della centralità della lotta alla mafia e purtroppo anche a livello sociale. Quello che sta accadendo, e quello che è accaduto recentemente in Sicilia, dimostra l’insensibilità rispetto alla gravità di certi problemi.
Io credo che ci sia bisogno, e il sindacato può tornare a costituire un importante punto di riferimento, di un cambiamento di passo. Quel cambiamento di passo che, un politico che mosse le prime attività in ambito sindacale, Pio La Torre, incarnava forse più di ogni altro politico. Cioè la capacità e la volontà, nella denuncia del fenomeno mafioso, di agire non solo indipendentemente dalla magistratura ma anche precedendo la magistratura.
Quando Pio La Torre, nel 1976, scrisse assieme a Cesare Terranova la relazione di minoranza della commissione parlamentare antimafia sui contatti e i rapporti tra la mafia e la politica, fece dei nomi e citò delle situazioni concrete”
. E quei nomi, ha concluso il magistrato, “non erano nemmeno inserirti, e quei fatti non erano stati nemmeno considerati dalla magistratura” e “nemmeno nei rapporti informativi dei carabinieri o della polizia di Stato”.
In conclusione, sembra che la storia, oltre a ripetersi, sia destinata a peggiorare.
In un Paese normale, a trent’anni dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, la magistratura avrebbe già condannato con sentenza definitiva i mandanti esterni. La politica avrebbe già fatto un’opera di pulizia profonda al suo interno. I giornali avrebbero riportato i fatti in maniera certosina senza guardare agli interessi di quello o quell’altro personaggio, si sarebbero fatte tante di quelle modifiche normative che delinquere e andare a braccetto con il mafioso non sarebbe stato più conveniente e la retorica sarebbe stata di casa solo al teatro.
Ma questo, purtroppo, non è un Paese normale.

Foto © Paolo Bassani

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