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Il consigliere togato e Saverio Lodato hanno presentato a Milano il libro 'I nemici della giustizia'

In un Paese normale si sarebbe festeggiato il trentennale delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio con le sentenze di condanna dei mandanti esterni già approvate dalla Cassazione. I giornali avrebbero riportato i fatti in maniera certosina senza guardare agli interessi di quello o quell’altro personaggio, si sarebbero fatte tante di quelle modifiche normative che delinquere e andare a braccetto con il mafioso non sarebbe stato più conveniente e la retorica sarebbe stata di casa solo al teatro.
Ma questo, purtroppo, non è un Paese normale.





Non è un Paese normale perché ci sono quei giornaloni 'ammazzasentenze' di ‘carnevalesca’ memoria, perché sono presenti quei soggetti che portano all’esasperazione le logiche di appartenenza, perché esiste una certa politica che osteggia la ricerca della verità sulle stragi del ’92 - ’93 e che pone in essere quelle riforme “gattopardesche” che de facto annichiliscono il servizio della giustizia. È questo il triste quadro che emerge dalle parole del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo e del giornalista Saverio Lodato durante la presentazione del loro ultimo libro ‘I nemici della Giustizia’ organizzato da WikiMafia e tenutosi ieri all’Università degli studi di Milano.
Dopo i saluti istituzionali portati dalla pro-rettrice vicaria Maria Pia Abbracchio e dal Presidente di Unisì, Pierfrancesco Pittalis, il sociologo Pierpaolo Farina, direttore di Wiki Mafia, ha aperto il dialogo citando Giovanni Falcone: "A volte percepisco nei miei colleghi un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezione, meno rigore negli spostamenti. E allora mi sorprendo ad aver paura delle conseguenze di un simile atteggiamento: normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato. Sarebbe insopportabile sentire ancora in un interrogatorio l'ironia e l'arroganza mafiosa di una volta”. La percezione che aveva avuto Falcone è la stessa di questi mesi: ossia che mentre da una parte si sta riempiendo Palermo di orpelli e la lista dei nomi istituzionali che saranno presenti alle commemorazioni si allunga, dall’altra il cuore del lavoro lasciato da Falcone e Paolo Borsellino stia venendo, pezzo per pezzo, distrutto nel disinteresse generale. Tuttavia rimane ancora uno zoccolo duro fatto da certi magistrati come Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, Roberto Scarpinato, Luca Tescaroli, Giuseppe Lombardo, Nicola Gratteri e altri come loro che tengono ancora alto il valore della Carta Costituzionale. Magistrati dalla schiena dritta che hanno voluto applicare veramente il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Per questo danno fastidio. Ed è per questo che contro di loro il Potere ha riservato i suoi attacchi più pesanti.


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“La riforma Cartabia è gattopardesca. Rafforza il potere delle correnti”
Il consigliere del Csm nel suo intervento ha ricordato che è in corso una partita importante che determinerà i futuri rapporti tra il potere giudiziario e il potere politico. Una partita giocata anche “sul fronte della riforma Cartabia sul fronte del maxi emendamento governativo che riguarda un aspetto della riforma della giustizia” e “dei quattro referendum sui quali saremo chiamati a votare il dodici giugno prossimo”. "Quello che vi chiedo" - ha continuato il magistrato - "e di informarvi, di non cedere diciamo alla tentazione di aderire ad una propaganda univoca, utilizzo questo temine con cognizione di causa, che vuole rappresentare questa riforma sul tappeto e anche" i “quesiti referendari" come una "riforma necessaria e urgente. Panacea di tutti i mali della magistratura". "In realtà, credetemi, non c'è nel progetto di riforma Cartabia nessuna norma, nessuna previsione che vada al cuore del problema e cerchi di risolvere il problema principale della giustizia e della giustizia penale: la lentezza dei processi. Non c'è nulla". Ma "in realtà il progetto che viene fuori da questo progetto di riforma è assolutamente chiaro. Ed è un progetto, che attraverso vari aspetti della riforma, mira a rendere sempre meno autonomo e sempre meno indipendente la magistratura. Sempre più collaterale il potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato. Ed é un progetto di riforma che non va al cuore del problema" ha ribadito Di Matteo, aggiungendo che "in queste ore sentiamo parlare da parte di tutti", comprese le "più alte cariche dello Stato fino ad una rappresentazione continua da parte di certi giornali”, di una "urgenza assoluta e di una indefferibilità della riforma del sistema elettorale del Consiglio Superiore della magistratura".
"Se lo scopo deve essere, e magari fosse quello, di depurare il Csm dall'influenza delle correnti, il sistema elettorale che é stato proposto con la riforma Cartabia è assolutamente inidoneo allo scopo". "Mi sembra una riforma gattopardesca - ha detto ancora il magistrato - che rappresenti il voler cambiare ma in realtà non cambia nulla, anzi, da un certo punto di vista, credetemi, rafforza il potere delle correnti in un momento decisivo come quello della elezione dei membri del consiglio superiore della magistratura".


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Il consigliere togato, Nino Di Matteo


"La lotta alla mafia passa anche attraverso la conservazione, anzi la promozione, dell'indipendenza degli uffici del pubblico ministero. La lotta alla mafia passa attraverso la valorizzazione dei magistrati effettivamente liberi e indipendenti". "Ecco perché la riforma della giustizia di cui oggi si parla é di fondamentale importanza anche per immaginare un futuro più efficace, un futuro di maggiore incisività nella lotta alla mafia". "In questi trent'anni - ha continuato Di Matteo - non possiamo dire che le cose siano rimaste com'erano prima delle stragi del 1992. Dobbiamo essere onesti. Da un punto di vista dell'efficacia della repressione dell'ala militare delle organizzazioni mafiose sono stati fatti grandi passi in avanti, ma solo da quel punto di vista. Non si è colpito, e nessuno dei governi che si sono succeduti a voluto colpire, e tanto meno sta dimostrando di voler colpire, l'aspetto dei rapporti esterni delle organizzazioni mafiose". Rapporti con il "potere politico, economico, imprenditoriale, finanziario e anche istituzionale. Non è stato fatto da questo punto di vista quello che si doveva fare perché è nel DNA delle mafie, in particolare di Cosa Nostra siciliana, coltivare quel tipo di rapporto e sembra che questa evidenza non sia colta da nessuno". E allora, "a trent'anni dalle stragi non possiamo limitarci, come inevitabilmente purtroppo avverrà, a uno sterile esercizio retorico, non possiamo limitarci a stimolare le emozioni di ciascuno di noi nel ricordo dei caduti", ma “dobbiamo fare di più, dobbiamo fare un passo avanti".

Lodato: “Attorno alla riforma della giustizia si gioca una partita truccata”
Il giornalista Saverio Lodato, intervenendo dopo Di Matteo, ha raccontato che "Facendo ormai da quarantadue anni il giornalista a Palermo posso dirvi che io da quarantadue anni in Italia sento parlare della necessità di una riforma della giustizia. E allora c'è un problema perché in nessun Paese europeo, da quarantadue anni, si discute della necessità di una riforma della giustizia. Non se ne discute in Francia, non se ne discute in Germania. Hanno le loro leggi sulla giustizia, che periodicamente richiedono dei ritocchi, questi ritocchi vengono approntati dai parlamenti, non si scatena mai la grancassa mediatica che, a mia memoria almeno da quarantadue anni, si manifesta e si produce in Italia”. “E allora perché questa discussione infinita?” ha domandato Lodato. La risposta è semplice: “Perché queste decine di tentativi di riforma, che puntigliosamente nel libro Di Matteo richiama indicando gli anni in cui venivano fatti, prima non andavano bene e poi dovevano essere modificate e cambiate? Perché ci sono dei numeri, delle cifre dell'anomalia italiana che gridano vendetta. Una delle prime cifre potrebbe essere il numero 160 - 170 tanti quanti sono gli anni in cui la mafia è presente ininterrottamente in Italia insieme alla 'Ndrangheta. L'altro numero è il quattro, perché sono quattro le mafie in Italia che" hanno "messo radici in tutte le regioni italiane. Anche in quelle che erano considerate dal punto di vista economico e sociale" dei "posti incontaminati e che i poteri criminali non sarebbero mai potuti arrivare. Poi c'è un'altra cifra, ventotto, perché tanti sono i magistrati che in Italia sono stati assassinati dalla liberazione fino a oggi dalla mafia, dal terrorismo e dalla 'Ndrangheta. In Francia in settant'anni é stato ammazzato un magistrato. Poi c'è un'altra cifra, diciotto, che ci ricorda che quella che é attualmente in carica al Parlamento italiano è la diciottesima commissione parlamentare di inchiesta e di studio sul fenomeno mafioso. La prima commissione parlamentare venne istituita tra il '61 e il '72. Sono trascorsi settant'anni e abbiamo un Parlamento che continua a studiare il fenomeno mafioso, come se del fenomeno mafioso ormai non si fosse capito tutto quello che c’era da capire e non esistono parlamenti al mondo che da settant’anni tengono in piedi delle strutture parlamentari per affrontare un problema di ordine pubblico che il nostro Stato è incapace di affrontare e di risolvere”.


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“Quando si è cominciato a parlare della riforma Cartabia - ha continuato il giornalista - a cui faceva riferimento il dottore Di Matteo, per la parte che riguardava appunto il blocco delle questioni di mafia, i magistrati simbolo della lotta alla mafia in Italia che sono delle eccellenze nel campo della lotta alla mafia e dei poteri criminali, per effetto del fatto che sono delle eccellenze in Italia i poteri criminali che non esistono in nessuna parte del mondo organizzati come da noi, hanno sollevato delle ampie riserve e manifestato asprissime critiche nei confronti di questi provvedimenti. Non mi riferisco solo al dottore Di Matteo. Mi riferisco al dottor. Gratteri, al dottor. Roberto Scarpinato, al dottor. Caselli” e “allo stesso Piero Grasso”. “Bene tutti questi magistrati antimafia hanno ampiamente manifestato le loro perplessità. La ministra Cartabia non ha mai fatto i loro nomi. Non ha mai detto: ‘mi siedo intorno ad un tavolo per ridiscutere con loro le parti della riforma che gli addetti ai lavori conoscono molto meglio di me, che non sono addetta ai lavori della lotta alla mafia’, ma ha proceduto in maniera indiscriminata e indifferenziata”. “Ecco perché attorno alla riforma della giustizia si gioca una partita truccata - ha ribadito Saverio Lodato - Di fronte ad un Paese che non viene messo in condizioni di capire quali sono le diverse misure che vengono proposte, da una parte dal governo e da una parte dagli addetti ai lavori. Perché la verità è che con la mafia e che con i poteri criminali in Italia si è sempre trattato”. “Continuano a ripetere il ritornello delle porte girevoli tra politica e magistratura. Bene, il dottor. Di Matteo ha contato con le dita di una mano quanti sono i magistrati oggi presenti in parlamento: sono tre. Ha contato quanti sono gli avvocati presenti in Parlamento: 132. Non c’è  nessuno che solleva una questione di incompatibilità nel momento in cui, all’interno di un Parlamento, ci sono 130 avvocati che partecipano alla commissione giustizia di Camera e Senato, fanno parte molto spesso delle commissioni per le autorizzazioni a procedere avanzate dalla magistratura nei confronti di questo onorevole o di questo senatore. In Francia, in Germania e in Spagna se l’avvocato viene eletto dal Parlamento deve chiudere lo studio e lo riapre quando ha smesso di fare il parlamentare. Qui invece la ministra Cartabia si riempie la bocca delle ‘porte girevoli’ tra magistratura e politica’. Questo - ha concluso - è quello che io definisco una partita truccata e non c’è nessuno che solleva il problema dell’avvocato che la mattina fa le leggi, il pomeriggio difende il suo assistito e con ogni probabilità poi torna in Parlamento per modificare o depenalizzare i reati di cui i suoi assistiti si sono resi colpevoli”.


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Il giornalista e scrittore, Saverio Lodato


La latitanza della politica
"La politica avrebbe il dovere, e non lo fa, di stimolare la piena ricerca della verità su quella stagione stragista. Non solo non lo fa" ha affermato Di Matteo "ma sembra aver tirato in certi momenti un sospiro di sollievo quando alcune indagini o alcuni processi" hanno avuto dei passaggi "apparentemente di sconfessione della attività della procura della repubblica"
"A trent'anni dalle stragi", ha spiegato il consigliere togato, "la situazione è peggiorata". "Trent'anni fa, e questo é scritto nelle sentenze definitive, una fra tutte quella della strage di via dei Georgofili del maggio del 1993 a Firenze, Cosa Nostra concepì" la lunga strategia stragista "anche per ottenere determinate modifiche legislative tra le quali l'attenuazione del 41- bis" e "l'abolizione dell'ergastolo, inteso come ergastolo effettivo, inteso come ergastolo ostativo, inteso come ergastolo che comporta che l'imputato o il condannato all'ergastolo debba scontare effettivamente la pena a meno che non dimostri collaborando con la giustizia di aver reciso i suoi contatti con l'organizzazione di appartenenza". Ebbene a trent'anni di distanza "noi troviamo nel dibattito di questi giorni l'argomento 'abolizione ergastolo ostativo'". "Non è soltanto, diciamo, un fattore che è entrato nel circolo della discussione attraverso iniziative legislative o iniziative governative" ha ricordato il magistrato, ma "è entrato prima con la sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo e poi con la sentenza della Corte Costituzionale nostra" e "sembra quasi che non possa essere scongiurato il pericolo che proprio quegli uomini di Cosa Nostra che hanno commesso quelle stragi per ottenere quello scopo, oggi paradossalmente a trent'anni da quelle stragi e dopo aver scontato una lunga carcerazione, benché condannati all'ergastolo e benché non siano divenuti collaboratori di giustizia, possano godere di benefici penitenziari. Sarebbe veramente il peggior oltraggio alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino".

La responsabilità politica e la responsabilità penale
"Paolo Borsellino pochi mesi prima di morire notò, con la lucidità che lo contraddistingueva, l'argomento del rapporto tra la mafia e la politica. E constatò tra i primi quello che poi abbiamo detto più volte: cioè la lunga e vera tragedia di questo nostro Paese. E cioè che si tende a sovrapporre la responsabilità penale di certi comportamenti con quella che dovrebbe essere la responsabilità politica di certi comportamenti accettati. Paolo Borsellino - ha detto Di Matteo - fece l'esempio di colui il quale esponente politico" che nonostante conosca "lo spessore mafioso di un soggetto, comunque lo frequenti, lo prenda a braccetto dimostrando la sua vicinanza, in quale modo ne cerchi il consenso. Paolo Borsellino osservava che non sempre questi comportamenti possono far scaturire dei processi perché possono essere anche dei comportamenti penalmente irrilevanti. Dovrebbe essere la politica a anticipare, facendo valere la responsabilità politica di certi comportamenti, l'azione della magistratura".


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"All'epoca questo non avveniva quasi mai, se non quando il giudice penale con sentenza definitiva avesse accertato l'esistenza di un reato. Io noto che la situazione oggi è peggiorata. Perché
- ha continuato - oggi non servono più evidentemente nemmeno le sentenze definitive di condanna della magistratura, per evitare che certi soggetti ricoprano comunque un ruolo politico importante. Non più di due settimane fa, almeno nelle cronache siciliane e dalla stampa, abbiamo letto che l'ex senatore della repubblica Marcello Dell'Utri sarebbe stato inviato in Sicilia dall'onorevole Berlusconi per cercare di risolvere nell'ambito della fazione politica di riferimento, il problema dell'individuazione delle candidature a sindaco di Palermo e di presidente della regione. E allora non si tiene più conto nemmeno delle sentenze definitive. Cioè oggi, e la cosa che mi fa più rabbia è l'accettazione rassegnata da parte di tutti, sembra normale che un soggetto che è stato definitivamente condannato per concorso in associazione mafiosa" detti "l'agenda politica in relazione a vicende così importanti". "E allora attenzione ai trionfalismi, attenzione alla facile retorica”, ha avvertito Di Matteo, “attenzione a tutti coloro i quali, e sono tanti e sono purtroppo appartenenti al ceto dominante, alla classe dirigente di questo Paese, ci vogliono fare credere che la lotta alla mafia è qualcosa appartenente ad una passato che non ritornerà mai più; perché la mafia non è più quella di una volta; perché la mafia non è più pericolosa come quella di una volta”.
Di Matteo, rivolgendosi poi ai giovani presenti in sala, ha aggiunto “perfavore informatevi, perfavore continuate ad indignarvi, perfavore non cedete alla facile propaganda di chi vuole farvi credere in questo momento che la riforma della giustizia sia finalizzata a rendere migliore il servizio giustizia. Io dico che è anche caratterizzata, in questo momento di grave difficoltà della magistratura, da una voglia di rivalsa nei confronti della magistratura, da una vendetta nei confronti dei magistrati che hanno osato alzare il tiro del loro lavoro. Da una finalità di prevenire che in futuro ci possano essere altre indagini o altri processi come quello sulla Trattativa Stato - Mafia, come il processo Contrada, come il processo Andreotti, il processo Dell'Utri, il processo sulle stragi terroristiche o alcuni dei processi che qui a Milano hanno visto protagonisti i colleghi del pool dei tempi di Tangentopoli. Questo è quello che volevo dirvi e che costituisce la mia grande preoccupazione. Sono giorni, settimane e mesi in cui si sta giocando una partita importantissima. Gli assetti futuri del rapporto tra la magistratura e gli altri poteri. Dobbiamo restare fedeli, come io dico, veramente fino alla morte alla nostra Costituzione. O dobbiamo accettare che la nostra Costituzione e il principio della separazione dei poteri, venga piegato perché si ottenga una magistratura più controllabile dal potere politico?”


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La pro-rettrice vicaria, Maria Pia Abbracchio


La lotta alla mafia non è nell’agenda politica dei governi
Saverio Lodato
ha sottolineato il fatto che in Italia la lotta alla mafia non è certamente considerata dalla classe politica e che se ne parli sempre di meno. Quindi, ha domandato, “la prima domanda che ci dobbiamo fare è: ma la mafia c’è ancora in Italia? È stata sconfitta? È stata debellata?”. Di Matteo ha fatto riferimento alla stagione d’oro del pool di Palermo “la quale inizia a manifestarsi agli inizi degli anni ’70. Fino agli inizi degli anni ’70 il Parlamento negava l’esistenza della parola mafia. Si riteneva che fosse un'invenzione di alcuni giornalisti di alcuni scrittori di sinistra tra i quali Leonardo Sciascia e di alcuni partiti di opposizione. Si riteneva che negando l’esistenza della parola mafia si negava anche l’esistenza del fenomeno mafioso. Si deve a pochissimi giudici, che poi diedero vita al pool antimafia di Palermo” per aver detto ad un certo punto che la mafia esiste.
“A quel punto lo Stato Italiano costretto a prendere atto che la mafia esiste, decide finalmente di dare via libera a quello che passerà alla storia come il maxi processo di Palermo” che “fino alla fine i poteri centrali romani tentarono di ostacolare e di impedire”.
Processo che venne istruito da Paolo Borsellino, da Giovanni Falcone e dagli uomini del pool. Ma cosa accadde? Accadde che Roma dette il via libera per colpire il braccio militare dell’organizzazione mafiosa. Ma quando successivamente gli stessi magistrati che avevano indagato sul braccio militare si rendono conto che nonostante tra cinquecento condanne all’ergastolo la mafia esisteva ancora ed era viva e vegeta cosa fa? Tenta di cominciare a potare i rami alti dell’organizzazione mafiosa. E così che inizierà il processo a Giulio Andreotti che durerà dieci anni. Che verrà condannato dalla cassazione ma prescritto perché alcuni episodi che venivano contestati si riferivano ad un periodo precedente. Ma in Italia - ha ricordato il giornalista - il mondo dell’informazione all’unisono riuscì a far diventare la condanna di Andreotti, condannato a pagare le spese processuali dalla cassazione, condanna alla quale lui non volle mai appellarsi, come l’assoluzione di Giulio Andreotti. E come l’ennesima prova del fatto che i pm di Palermo si erano montati la testa e dopo avere combattuto e represso la mafia militare volevano continuare ad alzare il tiro. Dopo il processo Andreotti, il processo sulla trattativa Stato-Mafia, ancora peggio. Cioè il tentativo da parte dell’accusa dei giudici palermitani di dimostrare che la mafia per esistere da oltre duecento anni ed essere sopravvissuta indifferente a tutte le repressioni che c’erano state, delle complicità dovevano esserci. Si è scatenata una campagna che ha visto le migliori firme del giornalismo Italiano. I migliori direttori di giornale. Pensiamo ad esempio ad Eugenio Scalfari che scrisse dicendo che era inconcepibile che i pm di Palermo avessero intercettato le telefonate del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Telefonate che vennero intercettate perché i pm stavano intercettando Nicola Mancino che era indagato in quel processo e che casualmente indagava il Quirinale per cercare santi in paradiso e trovare assoluzioni a posteriori rispetto ad alcune sue condotte che non erano state ineccepibili. Ebbene Giorgio Napolitano ottenne con l’applauso dell’intera stampa italiana che la Corte Costituzionale annullasse e decidesse di tombare definitivamente le telefonate dello scandalo. Le migliori firme del giornalismo italiano sostennero che quel processo era una boiata pazzesca per la semplice ragione che in Italia non c’era stata nessuna trattativa ed era una leggenda metropolitana che quando era avvenuto cinquant’anni prima lo sbarco degli alleati in Sicilia gli Americani si fossero rivolti alla mafia”. Lodato, citando le parole di Sciascia tratte dal libro ‘Fuoco all’anima’ ha ricordato che gli “Americani arrivarono con l’elenco dei mafiosi in tasca” e che dopo l’occupazione avevano scelto e messo a capo dei comuni siciliani gli stessi boss che guidavano le famiglie.
“Ma tutto viene da molto lontano” ha detto il giornalista. Nel “1893 accade a Palermo il primo omicidio eccellente. Viene assassinato il direttore del banco di Sicilia di allora che si chiamava Emanuele Notarbartolo. Sin dal primo momento viene individuato dall’autorità giudiziaria dell’epoca un senatore del parlamento regio di allora: tale Raffaele Palizzolo. Anche allora era necessaria la richiesta dell’autorizzazione a procedere e il Senato concede l’autorizzazione nel 1899, cioè sei anni dopo la morte di  Emanuele Notarbartolo. Nel 1902, quindi sono passati altri tre anni, la corte di assise di Bologna condanna  Palizzolo a trent’anni perché ritenuto mandante dell’uccisione di Notarbartolo. E non è finita perché intervenne la Cassazione” che “annulla la sentenza di condanna e ordina un nuovo processo che si tiene a Firenze nel 1904”. “Il senatore Palizzolo viene assolto, arriva a Palermo in treno, da Firenze e viene accolto da un comitato di accoglienza di cui fa parte la crema della società palermitana dell’epoca. A guidarlo c’è un bravissimo antropologo studioso, Pitrè” al grido di “viva Firenze! Viva la libertà! Viva il senatore Palizzolo! Viva la giustizia italiana! Questo accade nel 1902! Perché abbiamo difficoltà a capire che celebreremo il trentennale della strage di Capaci e di via D’Amelio andando ancora trent’anni dopo alla ricerca dei mandanti? Perché i mandanti in Italia non si possono e non si devono trovare. Per Palizzolo i due accoltellatori, perché Notarbartolo venne assassinato da due accoltellatori sul treno, espiarono la loro pena” ma i mandanti in Italia non ci finiscono in cella. “Ma non perché non ci sono prove, badate bene, non credete a questa favoletta, le prove ci sono ma non devono essere trovate”.
“Il primo omicidio eccellente, quando non c’era ancora l’Italia repubblicana, ci racconta che esisteva già una giustizia modellata per trarre in salvo  i rappresentati delle classi alte. Ma in quale Paese non si trova chi ha commesso due stragi di quella portata che decapitarono il Paese in 57 giorni?”.


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Le correnti e le cordate dentro alla magistratura
Secondo Di Matteo “Giovanni Falcone aveva colto l’essenza del problema. Il nostro è un Paese profondamente condizionato nella sua vita, a tutti i livelli, da logiche di appartenenza. In questo senso io ho parlato ancora prima di essere eletto al Csm della prevalenza di queste logiche anche all’interno della magistratura e del Csm. La logica dell’appartenenza che condiziona la vita pubblica di questo Paese, a molti e ad alti livelli, è quella per la quale se io appartengo ad una determinata fazione, non necessariamente politica, o ad un determinato gruppo o ad una determinata cordata o ad una determinata massoneria, allora verrò tutelato, promosso da quel gruppo, prima o poi ricompensato e in caso di difficoltà difeso. Questa logica - ha continuato - che poi è stata la logica che in un certo senso ha fatto implodere anche la politica è una logica che non si trova soltanto nella politica. È gravissimo il fatto che sia riuscita a penetrare anche la magistratura. Perché se il potere della magistratura” o “il potere giudiziario pretende come detta la Costituzione di essere autonomo e indipendente rispetto agli altri poteri, non deve essere condizionato dalle stesse logiche. Ecco perché io non ho parlato di metodi mafiosi all’interno del Csm. Ho detto che le attività del consiglio superiore della magistratura, specialmente in passato sono state condizionate dalle logiche di appartenenza e sono logiche tipiche della mentalità mafiosa. Se sei con me, io ti promuovo, ti difendo, promuovo la tua carriera. Sei fuori da me, sei nessuno. Sei contro di me, e hai capito come funzionano le cose, io ti delegittimo, ti isolo e ti combatto. Questa è una realtà molto triste che in magistratura si è determinata attraverso l’esasperazione delle logiche di appartenenza correntizia per cui purtroppo le prassi, dure a morire, volevano che se c’è un concorso, per esempio per l’attribuzione di un posto direttivo in un ufficio giudiziario, si scontrano le aspirazioni e le ambizioni di colleghi che si appoggiano al proprio gruppo di riferimento per poter coltivare le proprie ambizioni. Mentre chi è fuori da questi gruppi correntizi non viene neanche considerato nella sua professionalità, nel suo impegno, nella sua capacità. Noi non dobbiamo nasconderci. Noi magistrati dobbiamo avere l’intelligenza di non minimizzare il problema e il coraggio di affermare la verità. E la verità purtroppo è quella che vi ho rappresentato e che ha portato la magistratura ai minimi storici della sua credibilità. Il popolo in nome del quale noi amministriamo la giustizia ha perso la fiducia nella magistratura. Noi non dobbiamo avere paura di dirlo e dobbiamo combattere al nostro interno per recuperare quell’approccio ideale della magistratura che molti di noi avevano quando erano giovani magistrati” cioè “di considerare la bellezza del nostro lavoro. Non nel fare carriera e diventare presidente del tribunale o procuratore della repubblica o procuratore generale. Ma cercare di amministrare in modo concreto la giustizia difendendo i più deboli, difendendo i diritti di tutti contro le prepotenze dei mafiosi, dei criminali, dei corrotti e in certi casi anche dello Stato quando le istituzioni si allontanano dal percorso che la Costituzione traccia. Però voglio dire che questa autocritica che faccio sinceramente non mi fa perdere di vista” un “altro dato: c’è chi cerca di approfittare della oggettiva difficoltà della magistratura, non per aiutarla a risolvere i problemi, ma per metterla definitivamente in ginocchio. Fingendo di combattere i magistrati politicizzati o sensibili al potere; in realtà ci sono dei progetti di riforma che taglierebbero le ali ai magistrati che sono lontani” dalle logiche della politica, “taglierebbero le ali e renderebbero sempre più difficoltose le inchieste che vanno nella direzione di controllo della legalità di come viene gestito il potere. C’è questa voglia di regolamento di conti” emersa in tutta la sua evidenza durante il discorso di insediamento del presidente della repubblica Sergio Mattarella, nonostante come ha ricordato Di Matteo le intenzioni del Presidente erano evidentemente altre. “Quando il Capo dello Stato ha fatto riferimento alla necessità di riformare la giustizia, si è scatenato in maniera veramente impressionante un applauso lungo e manifestato in maniera ripetuta da parte di tutti gli schieramenti politici. Ho avuto la stessa sensazione di quando qualcuno apre le porte della gabbia, senza essere offensivo nei confronti di nessuno, ci mancherebbe. E come se quel discorso abbia liberato in molti parlamentari, perché non si può mai generalizzare, la loro volontà di rivalsa, la loro voglia, la loro fame di regolamento di conti  con la magistratura. E questo non si può accettare. Ma non perché da magistrato voglio difendere la casta dei magistrati, ma perché da magistrato e da cittadino voglio difendere l’indipendenza della magistratura che è baluardo per i cittadini più deboli, per le minoranze. Per i cittadini più deboli rispetto ai governanti di turno, per coloro i quali non hanno la loro forza nell’appartenenza a gruppi di potere, a massonerie, o a chi sa quale altro gruppo organizzato, ma hanno la loro forza soltanto nella conservazione effettiva dei loro diritti. Quindi i magistrati devono liberarsi da ogni tentazione di collateralismo con il potere. Da ogni tentazione di carriera. Noi ci dobbiamo distinguere tra di noi soltanto per le funzioni esercitate. Non siamo inseriti in una struttura gerarchica. Non dobbiamo cadere nel gravissimo errore di gerarchizzare gli uffici giudiziari. L’indipendenza della magistratura va difesa dagli attacchi esterni ma anche dagli attacchi interni. Perché ogni magistrato” dal più giovane al “più anziano e più esperto una volta che viene a lui assegnato un procedimento deve godere di piena autonomia decisionale rispetto a tutto e a tutti, anche rispetto ai dirigenti degli uffici giudiziari. Sono battaglie importanti. Sono battaglie che sono anche difficili da sostenere perché purtroppo è cambiato negli ultimi anni il DNA dei magistrati. La consapevolezza della propria autonomia interna è cambiata. Oggi rispetto a quando ero un giovane magistrato i giovani magistrati sono molto più attenti a fare le cose che sono gradite ai loro capi e questo è contro la Costituzione. Questo è contro il principio di tutela di indipendenza interna. La vera rivoluzione etica che noi auspichiamo - ha concluso il magistrato - è proprio quella di recuperare i valori fondanti della magistratura: l’autonomia, l’indipendenza, la libertà, il coraggio di trattare tutti i casi e tutti i cittadini in maniera uguale. La cosa più bella per un magistrato è rendersi conto che quella porzione di giustizia che amministra in quel momento venga amministrata secondo il principio di uguaglianza davanti alla legge. Non esiste altro in magistratura”.


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Il direttore di WikiMafia, Pierpaolo Farina


Nella parte finale dell’evento il direttore di WikiMafia ha ricordato il progetto omicidiario deciso dall’allora capo dei capi Salvatore Riina e dal superlatitante Matteo Messina Denaro contro Nino Di Matteo. Quest’ultimo ha riferito delle sentenze definitive “che attestano l’attendibilità di chi ha riferito di quel progetto di attentato nei miei confronti”. “C’è stata una inchiesta della procura di Caltanissetta che ha concluso, nel senso che il progetto di attentato era reale ed è esistente ma le posizioni di coloro i quali erano stati chiamati” da Galatolo “non potevano essere punite poiché non c’era stato il tentativo”.

Le continue menzogne sul processo Trattativa
Tornando sull’argomento della sentenza del processo Trattativa il magistrato ha detto: “Io, certamente come gli altri magistrati, ho i miei limiti e ho certamente fatto mille errori, ma rispetto al procedimento sulla trattativa Stato-Mafia conservo innanzitutto un atteggiamento di assoluta serenità e sono orgoglioso, insieme agli altri colleghi, di aver fatto quelle indagini. Innanzi tutto queste indagini hanno una caratteristica: hanno messo insieme tutta una serie di fatti apparentemente sconnessi: le stragi, i colloqui dei carabinieri del Ros con Vito Ciancimino, la mancata perquisizione del covo di Riina, la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, la mancata cattura di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto e tanti altri fatti. E ha cercato di dare una spiegazione logica, una linea di continuità a questi fatti. Si sono inventati, e continuano ad inventarsi, che noi abbiamo processato quegli imputati per il reato di trattativa. Noi abbiamo processato quegli imputati, alcuni dei quali sono stati condannati in primo ed in secondo grado, per un reato previsto dal codice penale che è ‘minaccia a corpo politico dello Stato’. I mafiosi facevano le stragi minacciando lo Stato e dicendo ‘se tu Stato non cambi quelle leggi io ti faccio altre stragi’”. Quelli che hanno fatto da intermediari “come ad esempio un medico mafioso che ha fatto da tramite tra Vito Ciancimino e Riina, perché hanno concorso nella minaccia dei mafiosi, perché hanno fatto da mediatori o addirittura da istigatori di quella minaccia”. “Adesso quelli che parlano di fallimento dovrebbero fare i conti con un dato: in primo grado 5552 pagine hanno spiegato perché anche gli appartenenti allo Stato dovevano essere condannati. Ancora non abbiamo le motivazioni della sentenza di appello ma i denigratori ad ogni costo dovrebbero fare i conti con il fatto che sono stati condannati alcuni intermediari mafiosi come il dottore Cinà” e “i carabinieri che sono stati assolti, non sono stati assolti perché il fatto non sussiste e quindi c’è stato un teorema per cui i fatti accertati non sono tali e non sono stati accertati, ma perché il fatto, che è stato provato secondo quei giudici, non costituisce reato. Vedremo perchè, poi. Ma i fatti sono lì nella loro concretezza, nella loro oggettività e non credo che nessuno li potrà smentire. E quei fatti hanno indotto altri giudici, con sentenze passate in giudicato quindi definitive, a dire che quelle interlocuzioni con parti dello Stato che avviarono con Totò Riina per il tramite di Ciancimino sortirono un effetto perverso: rafforzarono in Riina la convinzione che la strategia di omicidi eccellenti e delle stragi fosse quella giusta. Riina vistosi cercare da pezzi dello Stato che gli chiedevano ‘ma tu cosa vuoi per far cessare le stragi?’ ha organizzato altre stragi per mettere sul piatto della bilancia del suo rapporto con lo Stato la violenza terroristico mafiosa. Perché le stragi del 1993, sono stragi soprattutto di matrice terroristico mafiosa. Perché non sono più stragi per eliminare uno o più nemici della mafia, ma sono volte a piegare definitivamente le ginocchia allo Stato che con quella trattativa aveva già mostrato di iniziare a piegare. Questi sono fatti che non possono essere messi in discussione e che anche noi con i nostri limiti abbiamo contribuito a fare venir fuori. Ma adesso questa sentenza di assoluzione, che questi fatti dovrà spiegare perché non costituiscono reato attribuibile a questo o a quell’altro imputato. Ma quello che è vergognoso - ha sottolineato Di Matteo - non è tanto la sentenza.


dimatteo nino mi 2


Leggeremo, sono abituato a leggere e a condividere o non condividere le sentenze, ma certamente vanno rispettate. Ma quello che è vergognoso è stato il tentativo di fare passare questa sentenza come una sconfessione dei fatti che sono stati accertati, questo non è vero. È come se una parte del Paese, cioè quella che vuole che la mafia sia soltanto un fenomeno prettamente militare, non vuole ammettere i rapporti con il potere. La cosa che mi ha fatto impressione e che una parte della cosiddetta intellighenzia del Paese ha tirato un sospiro di sollievo. Non vedeva l’ora che questa sentenza potesse arrivare così come non vedeva l’ora di far spacciare la sentenza di Andreotti come assolutoria. Così come non vedeva l’ora di dimenticare la sentenza Dell’Utri, così come non vede l’ora e non vedeva l’ora di far finta che la sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo su Contrada abbia detto e abbia statuito che Contrada non fu protagonista di quei fatti di collusione con la mafia per i quali la giustizia italiana lo aveva definitivamente condannato. Questo è il nostro Paese. Quando ti limiti ad indagare, ad arrestare e a processare criminali comuni, anche se criminali mafiosi, vai bene e ricevi gli applausi di tutti. Quando invece cerchi di alzare il tiro e di capire cosa c’è oltre, nascono, non solo le critiche, che sarebbero di per sé assolutamente legittime. Ma le denigrazioni, le delegittimazioni, le menzogne, le calunnie, i silenzi, i depistaggi, le campagne giornalistiche. Adesso a trent’anni dalle stragi di mafia noi non abbiamo bisogno di retorica. Avremmo bisogno di una politica e di una magistratura che incoraggino l’approfondimento delle indagini. Perché quel percorso di verità che è iniziato con le prime sentenze è ancora un percorso di verità parziale. Perché se andiamo a leggere quei processi e quelle prime sentenze ci accorgiamo della presenza di uomini anche esterni a Cosa Nostra a livello di mandato, ma anche a livello di esecuzione e di organizzazione e comprovata da varie e concreti indizi. L’approfondimento
- ha concluso Di Matteo - di questa strada e di queste piste sarebbe il modo migliore per ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un modo autentico di onorare la memoria di quei caduti e di tutti gli altri caduti. Tutto il resto appartiene soltanto al mondo delle emozioni, della retorica. A quel mondo che in maniera consolatoria vorrebbe far credere che i buoni sono morti soltanto per mano dei cattivi riconosciuti come tali da tutti”.

Conclusioni
Questo è il Nostro Paese. Due soli baluardi rimangono a difesa dei principi di libertà e uguaglianza: la magistratura e la Carta Costituzionale.
La politica com'è intesa oggi non è in grado di essere credibile sotto il profilo della lotta alla mafia, della ricerca della verità e della creazione di un sistema normativo adeguato a garantire l'equità davanti alla legge. Di conseguenza era prevedibile che dai Palazzi Romani sarebbe arrivata una riforma tutt'altro che adeguata. Le parole di Di Matteo, riportate grazie ad un video realizzato dal collega Giuseppe Pipitone del 'Fatto Quotidiano' (video), anche lui presente in sala, non lasciano dubbi. L'ultima speranza del cambiamento rimane quindi nella magistratura dalla schiena dritta, nella passione civile dei cittadini e soprattutto nei nuovi movimenti, rappresentati da volti giovani puliti ed onesti. È essenziale anche la difesa della Costituzione e di coloro che la applicano concretamente nell'esercizio delle loro funzioni, siano essi funzionari pubblici o privati cittadini. Questo è il vero spirito che deve animare una nuova rivoluzione.

Foto © Francesco Piras

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