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Il criminologo che fece riaprire il caso: “Stava indagando sul delitto Li Causi, anch’egli agente Sismi. Entrambi erano amici di Ilaria Alpi”

"C’è bisogno di ridare dignità a una morte macchiata dal disonore”. Mano a mano che l’avvocato Dino Latini e il criminologo Federico Carbone proseguono con le indagini saltano fuori particolari inquietanti sulla vicenda dell’omicidio di Marco Mandolini. Il parà della Folgore originario di Castelfidardo venne brutalmente assassinato il 13 giugno 1995 sulla scogliera del Romito, a Livorno. Raccapriccianti i dettagli dell’assassinio: il corpo è stato ritrovato maciullato con segni di oltre quaranta coltellate e la testa fracassata, probabilmente da un masso pesante 25 chili.
Quello di Mandolini è l’ennesimo fatto di sangue, dai contorni occulti, che ha macchiato la storia della Repubblica. Da quasi 30 anni la famiglia Mandolini cerca giustizia, affrontando silenzi e depistaggi (come la pista passionale con un commilitone). Come la maggioranza delle vittime in uniforme di quegli anni, dietro le cui morti si celano trame e moventi indicibili, anche questa famiglia ha dovuto contare sulle proprie forze per acciuffare la verità che insegue da decenni. Ma Marco, nome in codice “Kondor” o “Ercole” non era un ufficiale qualunque: ma un incursore dei corpi speciali dell’Esercito italiano “Col Moschin”, sottufficiale della Folgore in forza al Sismi, il servizio segreto militare, parlava l’arabo e il russo ed era un addestratore esperto.
"Non ci fermeremo mai, finché non sarà fatta giustizia”, ha detto a febbraio scorso Francesco Mandolini, fratello di Marco, a Il Resto del Carlino. “Abbiamo imboccato una strada che rende innanzitutto giustizia a quello che era il ruolo reale di mio fratello all’interno del comparto militare e apre al mondo di omertà che c’è stato attorno alla sua uccisione da parte dei suoi stessi commilitoni, ‘fratelli’”, ha raccontato. “Ciò dimostra in realtà - ha spiegato - quanto questo omicidio sia legato effettivamente agli stessi ambienti militari che, nel nome della ragion di Stato, del segreto di Stato e di equilibri intoccabili, finora hanno taciuto". Francesco Mandolini è certo che il movente e i killer del fratello si nascondano nell’Esercito. Tra nemmeno due mesi, nell’anniversario della sua morte, si raccoglierà con la sua famiglia, come ogni anno, al cimitero per commemorarlo. "Vogliamo che sia resa giustizia a questo servitore della Patria. Anni di silenzio e noi familiari stiamo ancora cercando la verità. Grazie al lavoro instancabile del criminologo Federico Carbone”, hanno detto a Il Resto del Carlino. Fu proprio Carbone a condurre il caso a una svolta nel 2018 permettendo, nel 2021, dopo 26 anni, la riapertura del fascicolo dal gip di Livorno. Il criminologo, in sostanza, scoprì che il delitto Mandolini era maturato all’interno del contesto eversivo di Gladio, nello specifico nella sua formazione semi-clandestina: la Falange Armata. Carbone individuò una pista che tocca altri due casi irrisolti: il caso Alpi e quello Li Causi. Sulle tre vicende ci sono delle convergenze non da poco. La prima: Mandolini conosceva ed era amico sia dell’inviata Rai Ilaria Alpi che del maresciallo Vincenzo Li Causi (anch’egli agente segreto italiano del Sismi come Mandolini). La seconda: sia Ilaria Alpi che Li Causi lavoravano in Somalia, dove vennero uccisi nel pieno della guerra civile. Anche Mandolini fu inviato in Somalia. Era stato capo della sicurezza del generale Bruno Loi nella missione “Ibis” del 1993. “Sono riuscito a dimostrare che Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi, militare appartenente alla VII Divisione del Sismi, capocentro della base Skorpione di Trapani, famosa postazione di Gladio, morto a Balad in Somalia, il 12 novembre 1993, si conoscevano molto bene”, ha spiegato Carbone. “Così come si conoscevano Mandolini e la giornalista Ilaria Alpi. Mandolini aveva confidato alla sorella che non era convinto della dinamica dell’uccisione di Li Causi. Aveva cominciato ad avviare indagini riservate e parallele sulla morte del commilitone". Quando Carbone arrivò a questo dettaglio si stava occupando della vicenda Li Causi. Su cui nel 1993 si stava occupando anche Mandolini. "Da un lato ci sono le indagini che Mandolini stava eseguendo sulla vicenda Li Causi, dall’altro la presenza nella "lista Fulci" dello stesso Li Causi e della persona che indirizzerà le indagini sulla morte di Mandolini verso la pista omosessuale. In più ci sono documenti che dimostrano il lavoro congiunto di Mandolini e Li Causi. Ci sono elementi tali che potrebbero mettere addirittura in discussione il giorno del decesso”, ha spiegato il criminologo.
Aspetti inquietanti. Ma non finiscono qui. Come riporta Il Resto del Carlino, il caso Mandolini si staglia anche su un altro dei grandi misteri della Prima Repubblica, l’uccisione di Mauro Rostagno. Il giornalista e sociologo venne freddato il 26 settembre 1988 a Valderice per volere del “capo dei capi” di Castelvetrano Francesco Messina Denaro (detto “zu Ciccio”), padre dello stragista Matteo, ora recluso in Abruzzo. Rostagno fu ucciso per aver tolto i veli sugli intrecci tra mafia, massoneria e politica nel Trapanese. Tra le tante inchieste delicate di cui si occupò, ce n’era una particolarmente scottante, avente ad oggetto Gladio. Rostagno custodiva una videocassetta nella quale avrebbe filmato un transito dì rifiuti tossici sull’allora pista dell’aeroporto di Trapani Chinisia.
Il conduttore televisivo Andrea Purgatori, in una recente puntata di “Atlantide”, ha testimoniato visivamente le tracce di quella pista. Lo scalo di Chinisia, votato più ad un utilizzo militare che civile, venne chiuso con l costruzione dell’attuale aeroporto di Trapani Birgi. Situato 16 chilometri a sud della città, secondo molti Chinisia sarebbe stato utilizzato dalla struttura paralimitare siciliana di Gladio come scalo di addestramento. Del resto a Trapani Gladio aveva una delle sue sedi, il “centro Scorpione”, appunto. Rostagno sarebbe riuscito a filmare un traffico illecito di armi e rifiuti tossici verosimilmente diretti in Libia e in Somalia. La stessa rotta che aveva scoperto, si pensa, anche Ilaria Alpi prima di venire uccisa. Il “centro Scorpione” era gestito da Gladio nel Trapanese. Rostagno credeva impossibile che il centro non sapesse che cosa succedeva a Chinisia. Il centro Scorpione era attivo a Trapani già dal 1987 ed era controllato dal maresciallo Vincenzo Li Causi. Quando venne chiuso, l’agente segreto Li Causi non era più segreto, anzi, era assediato dalla giustizia e dalla stampa. Probabilmente bisognava farlo sparire.

Fonte: ilrestodelcarlino.it

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