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Matteo Messina Denaro, a sentire le cronache, non sta bene. Si aggrava a vista d’occhio. Ricoverato in terapia intensiva in un reparto specializzato del carcere di massimo isolamento dell'Aquila, a seguito di un secondo intervento al colon per un tumore al quarto stadio, avrebbe deciso di continuare a tenere la bocca chiusa pur di non spalancare il portellone che contiene infiniti segreti che datano da almeno trent’anni. Segreti di mafia? Sarebbe preferibile definirli Segreti di Stato.
Negli ultimi otto mesi, ché tanti ne sono trascorsi da quel 16 gennaio di quest’anno, quando venne gentilmente fatto accomodare senza manette in un blindato dei carabinieri, dei suoi colloqui e interrogatori con il procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia e dell'aggiunto, Paolo Guido, si è saputo quel poco che c’era da sapere. E quel poco, pare sia tutto.
Lui non c’entra nulla con Cosa Nostra, non sa di cosa parlano quelli che lo accusano, ribadisce indispettito che se non fosse stato gravemente ammalato lo starebbero ancora cercando, che ci sarebbero altri suoi covi, abitazioni, rifugi, mai individuati dalle forze di polizia, che, infine, tutti i soldi che gli sono rimasti, dopo un primo sequestro miliardario, non saranno mai ritrovati.


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Matteo Messina Denaro, a ben vedere, altro non ha fatto in questi otto mesi se non attenersi scrupolosamente al vecchio cliché del Capo dei Capi di Cosa Nostra che se viene finalmente catturato non parla neanche sotto tortura, rivolgendosi così a quel popolo di mafia che inevitabilmente gli sopravviverà.
Ma siamo sicuri che, nel suo caso, sia solo il popolo di mafia l’interlocutore privilegiato e destinatario del suo silenzio in punto di morte?
Il silenzio del boss vale, in realtà, quanto un infinito romanzo nero a puntate. L’elenco al quale facevamo riferimento prima è infatti condensabile in un unico grido di battaglia: “Sono stato e resto Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa Nostra”.
Cioè.
Non ci sembra che invochi un sia pure strampalato scambio di persona chi orgogliosamente rivendica di custodire soldi segreti e documenti, e persino altri covi, sottintendendo persino, con un pizzico di malizia, di essersi lasciato prendere per gravi condizioni di salute. Il che - dobbiamo metterlo per iscritto a tranquillità degli imbecilli che non mancano mai - non significa affatto che gli investigatori, magistrati in testa, non abbiano fatto tutto il possibile per assicurarlo alla giustizia. Un conto infatti è arrestare un criminale, diverso è il costringerlo a parlare. Questo non si può fare.
Matteo Messina Denaro protegge sino all’ultimo giorno di vita i suoi protettori.
Non compie il miracolo di far saltare fuori l’agenda rossa su cui Paolo Borsellino si sfogò sino alla vigilia del 19 luglio, giorno della strage di via D’Amelio.


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Non ha alcuna intenzione di cacciar fuori i documenti del covo di Totò Riina, che dopo la mancata perquisizione del Ros in via Bernini passarono a lui in una sorta di ruvido spoil system.
Non dice né il chi né il come né il perché delle stragi di Firenze, Roma e Milano, dopo quelle di Palermo. E meno che mai cosa
indusse il vertice di Cosa Nostra a accelerare la strage di via D’Amelio dopo quella di Capaci, la cui location romana, quella già decisa, era stata accantonata.
Non fornisce agli investigatori alcun “aiutino” per svelare il mistero del programmato attentato dinamitardo (anche da lui, in persona) contro il giudice Nino Di Matteo.
Fermiamoci anche se l’elenco potrebbe continuare.
Peccato che, salvo, ovviamente, ripensamenti dell’ultima ora, pare preferisca andare al creatore con tutto il fardello dei suoi segreti.
Vivere trent’anni da leone per passare - quando sarà - a un'eternità di modesto impiegato dello Stato preoccupato solo di garantire l’eredità ai suoi familiari.
E lo Stato che fa? Lo Stato ringrazia. 

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La rubrica di Saverio Lodato

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