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di Giorgio Bongiovanni

Palermo, sono da poco trascorse le 21 del 3 settembre 1982. Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, abilissimo investigatore e punta di diamante dell’Arma dei Carabinieri, si sta recando in auto in un ristorante fuori Mondello per trascorrere una serata insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Lei alla guida, lui sul lato passeggeri. Dietro di loro l’Alfetta guidata dall’agente di scorta Domenico Russo. Improvvisamente, all’altezza di via Isidoro Carini, una motocicletta e una BMW 518 si affiancano alle due vetture e partono raffiche interminabili di kalashnikov. La coppia viene investita da 30 proiettili di AK-47. Il commando è composto dai boss mafiosi Pino GrecoScarpuzzedda”, Calogero e Raffaele Ganci, Francesco Paolo Anselmo, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. L’auto dei due sposi finisce contro un’altra parcheggiata e uno dei sicari, non contento, scende e si avvicina per finire il lavoro, esplodendo in faccia al generale un ultimo letale colpo. In via Carini è strage, oltre a dalla Chiesa e la moglie muore anche l’agente Russo dopo otto giorni di coma.
Di quella mattanza, 41 anni dopo, sappiamo chi furono i boia e i mandanti (interni) di Cosa Nostra, nello specifico Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Ma ancora non sappiamo con certezza quale fu il vero movente; perché le indagini vennero depistate; e quali sono i volti dei mandanti esterni dell’attentato.
Per comprendere i motivi per cui fu ucciso il generale, probabilmente, si deve guardare a quei famosi 100 giorni vissuti nel capoluogo siciliano. Il 5 aprile 1982, pochi giorni prima di partire per la Sicilia per guidare la prefettura - ultima missione assegnata al Generale che aveva annientato i brigatisti - dalla Chiesa si incontrò con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Al premier democristiano disse queste parole che offrono una possibile chiave di lettura sul movente dell’agguato del 3 settembre ’82: "Non avrò riguardo per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori".
A raccontarlo è stato il figlio, Nando dalla Chiesa, nel libro "Delitto Imperfetto". "Mio padre disse a noi dopo quel colloquio: 'Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia'". Probabilmente, fu in quel momento che il Generale firmò inconsapevolmente la sua condanna a morte. Dalla Chiesa sapeva bene delle complicità con Cosa Nostra degli appartenenti alla corrente andreottiana della Democrazia cristiana nell’Isola. Del resto aveva chiesto poteri speciali per svolgere il suo incarico, così come fece quando combatteva in prima linea i terroristi delle Brigate Rosse. Gli furono promessi dal ministro Rognoni ma concretamente non gli furono mai dati. Il potere politico del tempo, infatti, era in mano alla Democrazia Cristiana di Andreotti, che il prefetto dalla Chiesa definiva “la famiglia politica più inquinata”.
Per assurdo fino a quel momento godeva della massima fiducia del governo e dello stesso Andreotti”, ha rammentato di recente il magistrato catanese Sebastiano Ardita. Poi però, dopo quell’incontro con il presidente del Consiglio, i membri della Dc gli dichiararono guerra perché dalla Chiesa aveva compreso che da quelle coperture politiche dipendeva la forza della mafia. Nonostante ciò, dalla Chiesa fece il proprio dovere fino al giorno della strage con i pochi mezzi legislativi e operativi di cui l’Arma era in possesso al tempo e che il Generale chiedeva allo Stato per combattere le organizzazioni mafiose in Sicilia. Strumenti che oggi, solo dopo la sua morte, e quella di decine di altri servitori dello Stato, il Paese possiede.


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La scena dell'omicidio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme a sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta, Domenico Russo © Franco Zecchin


I mandanti della DC
Ad ogni modo Cosa Nostra al tempo non aveva messo in testa alla sua lista nera il nuovo prefetto nonostante in Sicilia avesse già indagato su Cosa Nostra a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Questo perché, banalmente, come raccontava la figlia Simona, Cosa Nostra “non ne aveva convenienza”. Dalla Chiesa, dicevamo, era a Palermo da soli cento giorni, non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente e non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche perché non è quello il compito del Prefetto. Inoltre, spiegava sempre Simona dalla Chiesa, “la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica”. Eppure Cosa Nostra decise lo stesso di abbattere il generale più famoso d’Italia, conosciuto per aver praticamente annientato le Br. Fu un delitto che andava fatto per ordine di altri, non di Cosa Nostra. Una dinamica, questa, che più volte abbiamo riscontrato nei delitti eccellenti della Prima Repubblica. La conferma che dietro l’omicidio ci fossero mandanti esterni arrivò dalle parole del boss Giuseppe Guttadauro, l'ex aiuto primario della Chirurgia del Civico di Palermo. “Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa, andiamo, parliamo chiaro”, diceva a Salvatore Aragona, suo amico fidato. Ad intercettare le parole del boss, nel 2001, erano i magistrati di Palermo coordinati dal pm Nino Di Matteo, che indagavano sull’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato alla mafia.
Aragona annuiva e parlava di un misterioso “orchestratore”. I carabinieri del Ros hanno scritto alla Procura commentando: “Guttadauro riteneva che nella strage Dalla Chiesa vi fosse una occulta regia di qualcuno che si era sostanzialmente salvato dalla situazione”. “Ma perché noi dobbiamo sempre pagare le cose”, accennava Aragona. “E perché glielo dovevamo fare questo favore”, rispondeva Guttadauro. “Non l'ho capito - insisteva Guttadauro - questo spingere determinate esasperazioni. Perché farci mettere nel tritacarne”. Chi aveva chiesto nell'82 il “favore” di uccidere Carlo Alberto dalla Chiesa? Chi è “l’orchestratore”? “Salvo, noi a parole non possiamo risolvere e capire tutte cose - proseguiva Guttadauro - ci sono delle cose che io non dirò mai, non mi usciranno mai”. Anche i mafiosi si lamentavano che le responsabilità per i delitti eccellenti si siano fermate solo al livello degli esecutori e dei mandanti mafiosi. Questi, infatti, sono stati utilizzati molte volte come braccio armato per operazioni militari che alla fine si sono quasi sempre rivelate sconvenienti per l’organizzazione Cosa Nostra stessa. “Soltanto i politici si possono infilare sotto quell'ombrello - sentenziava Guttadauro - tu vedrai che nei vari processi quelli che non avranno problemi saranno soltanto i politici”.


dalla chiesa carlo alberto wikipedia

E a proposito di politici, nel 2017 l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato audito in commissione Antimafia per spiegare i rapporti tra mafia e massoneria, parlò dell’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa. E scandendo le parole affermò: “L’ordine di eliminare dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino”.
Democristiano, andreottiano, massone, Cosentino era un potente parlamentare della Dc, segretario generale della Camera, fedelissimo di Giulio Andreotti, personaggio di rilievo della loggia massonica P2 di Licio Gelli e uomo vicino a Cosa Nostra. L’identikit di Cosentino potrebbe essere senza problemi quello dell'"orchestratore" di cui parlava Guttadauro.
Anche il collaboratore di giustizia Francesco Paolo Anzelmo aveva dichiarato che quell'eccidio non era stato determinato dalla guerra di mafia, ma era “una cosa che era restata fuori” e successivamente anche i pentiti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino fornirono ulteriori spunti. Il primo, vicino a Pino GrecoScarpuzzedda”, aveva raccontato la lamentela con quest'ultimo per avere dovuto organizzare il delitto (“Stu omicidio dalla Chiesa non ci voleva... Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca”); mentre il secondo aveva parlato di convergenza di interessi esterni a Cosa Nostra. Una pista seguita a suo tempo anche dai giudici del primo maxiprocesso. Tanto che gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in merito al delitto parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Ed anche i giudici, nella sentenza di condanna dei boss, mettono nero su bianco che “si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.

Il depistaggio
Attorno all'uccisione dell'altissimo ufficiale dell'Arma sono presenti tutti quegli elementi che caratterizzano le grandi stragi di Stato con tanto di sparizione di documenti e misteri. Ed è stato sempre il capo dei capi, Totò Riina, a confermare che al generale furono sottratti i documenti.
Loro - diceva il boss corleonese - quando fu di questo ... di dalla Chiesa ... gliel'hanno fatta, minchia, gliel'hanno aperta, gliel'hanno aperta la cassaforte ... tutte cose gli hanno preso”. E per loro intendeva ambienti esterni a Cosa Nostra. I servizi? Una possibilità tutt'altro che campata in aria.
E' un fatto noto che qualcuno entrò nell’abitazione del prefetto a Villa Pajno durante la notte fra il 3 e il 4 settembre 1982. Arrivò fino alla cassaforte e la svuotò.


dalla chiesa zecchin

Il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa in una visita alla scuola Garibaldi di Palermo nel 1982 © Franco Zecchin


La mattina del 4 settembre, infatti, i familiari di dalla Chiesa cercarono la chiave per aprire quella cassaforte ma senza successo. La chiave ricomparve solo il pomeriggio dell'11 settembre, nel cassettino di un segretario. Quando la cassaforte fu aperta, però, dentro non vi era più nulla a parte una scatola (vuota a sua volta). La valigia di pelle del generale, invece, è stata ritrovata nel 2013 nei sotterranei del tribunale di Palermo. Era priva di documenti. Eppure nel verbale di sopralluogo della polizia scientifica, conservato nel fascicolo giudiziario sulla strage di via Carini, viene certificato che poco dopo le 21.30 del 3 settembre 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa (già morto da una quindicina di minuti dentro la sua auto) teneva tra le gambe una borsa piena di carte. In un altro verbale, datato 6 settembre, vi è anche una lettera di trasmissione della squadra mobile di Palermo alla Procura della Repubblica ma qui si fa cenno solo alla borsa del generale. E i documenti? Scomparsi nel nulla.
In un video Rai, acquisito dai magistrati della Dia su disposizione della Procura di Palermo, la valigetta di pelle viene immortalata tra le mani di un militare dell'Arma.
Nel settembre 2012 in una lettera anonima che giunse all'allora sostituto procuratore Nino Di Matteo, oggi membro togato del Csm, si diceva che "un ufficiale dei Carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo”. Inoltre si parlava di un ufficio riservato che il generale dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: “Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono e lì vi erano faldoni, appunti e messaggi”. La Procura di Palermo, nelle persone dei pm che indagavano sulla trattativa Stato-mafia, riaprirono il fascicolo e sentirono anche Nando dalla Chiesa come testimone. Anni dopo su quelle indagini non si è saputo più nulla, ma i quesiti restano numerosi.
A distanza di 41 anni, nonostante il tempo trascorso, non si può smettere di sperare che sulla morte del generale dalla Chiesa, vero Padre della nostra Patria, si arrivi ad una verità completa. E per farlo è necessario che la società civile non si accontenti più delle mezze verità, sostenendo i familiari e quella magistratura sana che non guarda in faccia a nessuno per riaccendere i riflettori e smascherare quelle "menti raffinatissime" che si nascondono dietro gli atroci delitti della nostra Repubblica.

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