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De Lucia: "Contribuì a creare una coscienza antimafia. Ha spinto i giovani a scendere in campo"

Come avvenuto per Boris Giuliano, Pio La Torre, Giovanni Falcone e tanti tanti altri, anche la morte di Libero Grassi ha segnato l'avvio di una nuova stagione di lotta alla mafia, colpendo al cuore quella società civile che fino ad allora non era ancora riuscita ad affrontare l’insidiosa piaga delle estorsioni.
Libero Grassi nacque a Catania il 19 luglio 1924, in una famiglia antifascista, a un mese di distanza dall'assassinio di Giacomo Matteotti. Il suo nome, Libero, venne scelto proprio in onore del parlamentare socialista ucciso dai fascisti per essersi opposto al Duce. Cresciuto a Palermo, nel 1942 Libero si trasferì a Roma, dove studiò Scienze Politiche. Rifiutandosi di combattere la Seconda Guerra Mondiale al fianco di fascisti e nazisti, entrò in seminario e ne esce dopo la liberazione, tornando nel 1945 a studiare e laurearsi alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo poiché il corso di laurea in Scienze Politiche era stato soppresso. E decise inoltre di abbandonare la carriera diplomatica per abbracciare quella imprenditoriale nel settore tessile inserendosi nell'ambiente della borghesia industriale milanese. Tornato a Palermo, insieme al fratello fondò la Mima, un'azienda che produce biancheria da donna, che in poco tempo arrivò a contare 250 operai. Nel 1958 terminò la collaborazione col fratello e nacque la Sigma, che fino al giorno dell’omicidio realizzava pigiami e vestaglie da uomo. Negli anni '60, con la moglie Pina, entrò nel Partito Radicale, e poi nel Partito Repubblicano. Collaborò anche con diverse testate, tra cui Il Mondo. La sua attività aveva catturato da tempo le attenzioni di Cosa Nostra a Palermo. Ma Libero Grassi aveva fin da subito manifestato il proprio ripudio all’idea di pagare aguzzìni e genuflettersi a Cosa Nostra. “Non mi piace pagare, è una rinunzia alla mia di dignità di imprenditore", spiegò’ l'11 aprile 1991 a Michele Santoro su Rai Tre. Celebre la sua lettera che fece pubblicare il 9 gennaio 1991 sul Giornale di Sicilia rivolta al “geometra Anzalone” che gli aveva chiesto di pagare 50 milioni delle vecchie lire per “mettersi a posto”. La risposta di Grassi al “caro estortore”, come lo aveva definito nella missiva, fu esemplare. Questa non rappresentò solo un atto di sfida ma anche la rivendicazione di essere liberi e di poter vivere con dignità.
“Volevo avvertire il nostro ignoto estortore - scrisse Libero Grassi - di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al ‘Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui”.
Libero Grassi con quel gesto si espose da solo alla vendetta mafiosa e il 29 agosto 1991, dopo aver salutato la moglie Pina, Salvino Madonia e Marco Favaloro (del clan dei Madonia) lo seguirono per poi ucciderlo alle spalle.

Erano le 7.45 di mattina, Grassi girava senza scorta (che aveva rifiutato nonostante le ripetute minacce) e i boss non dovettero faticare per abbattere quell’imprenditore irriducibile. Quattro colpi di pistola misero fine alla sua vita. Qualche mese dopo la morte di Libero Grassi, il Governo emanò il decreto-legge n.419, convertito in legge n.172/92, che istituisce il fondo di solidarietà in favore delle vittime di richieste estorsive e di usura. L’ennesimo provvedimento governativo disposto solo dopo la morte di quei tanti coraggiosi che in Sicilia hanno dato la vita per la libertà. Nell'ottobre del 1993 venne arrestato Salvatore Madonia, detto Salvino, figlio del boss del mandamento di Resuttana, e il complice alla guida della macchina Marco Favaloro, che in seguito contribuì alla ricostruzione dell'agguato. Madonia venne condannato in via definitiva, anche al regime 41-bis, e con lui l'intera Cupola di Cosa Nostra.

Oggi, 32 anni dopo, il ricordo di Libero Grassi è ancora vivo nel cuore e nella mente di Palermo, il suo testimone è stato raccolto da tantissime associazioni come Addiopizzo e trasmesso alle generazioni successive dall'attività incessante della moglie Pina e dei figli Alice e Davide. A celebrarne la memoria in via Alfieri, nel luogo e nell'orario esatto (7:45) del delitto, il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, il prefetto Maria Teresa Cucinotta, l'assessore regionale ai Beni culturali Francesco Paolo Scarpinato, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e il presidente della commissione regionale antimafia Antonello Cracolici; con loro i figli di Grassi e i rappresentanti delle forze dell'Ordine.

"Libero Grassi - ha dichiarato il procuratore de Lucia in una intervista al Giornale di Sicilia - ha contribuito a creare una coscienza antimafia. Ha spinto i giovani di Addiopizzo a scendere in campo. Nel corso di questi tre decenni c'e' stata una reazione dello Stato, è stata colpita la mafia militare, i boss hanno scoperto che l'impunità non c’è più. La differenza oggi la fanno le tante, tantissime condanne". "L'esempio di Libero Grassi - ha affermato sempre de Lucia in un'intervista a Repubblica - resta attualissimo, il pizzo si continua a pagare nella nostra città, in misura minore rispetto al passato, ma oggi non è solo per paura che gli operatori economici cedono ai mafiosi, bensì per convenienza".


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La figura di Madonia
Tornando al delitto, c’è un aspetto che in pochi ricordano. E cioè la dinamica in cui esso è stato posto in essere. Secondo i pentiti che facevano parte della commissione di Cosa Nostra come Giovanni Brusca, Antonino Giuffré e Totò Cancemi, il capo dei Capi Totò Riina non diede alcun ordine di uccidere Grassi. Fu una decisione arbitraria di Salvino Madonia. Una condotta, questa, assolutamente anomala in quanto era Riina e solo Riina a detenere il potere di vita e di morte nell’organizzazione, era lui la figura che dettava le esecuzioni ed era da lui che bisognava presentarsi per eventuali regolamenti di conti.
Eppure, nel caso dell’omicidio di Libero Grassi, come nell’omicidio, per esempio, del poliziotto Nino Agostino, non solo Totò Riina non diede alcuna disposizione ma non venne proprio consultato. Venne scavalcato di netto.
Totò Cancemi stesso ci disse personalmente che Riina non aveva dato il suo consenso. Non aveva proferito alcun ordine e venne a sapere dell’omicidio a cose fatte. Normalmente il capo dei Capi in questi casi era solito scatenare la propria furia omicida contro chiunque provasse o solo pensasse di prendere iniziative autonome senza il suo consenso. E di questo Madonia ne era consapevole.
Tutto si regolava con la democrazia finché tutti concordavano con lui. Quando qualcuno non era di suo gradimento si pagavano le conseguenze. Al 99% con la vita”, raccontò Giovanni Brusca.
Eppure nel caso di specie, proprio come nel caso del delitto Agostino, il Capo dei Capi se ne guardò bene dal vendicarsi contro i suoi sottoposti. Manifestò solo la propria indignazione e il desiderio di farla pagare ma senza mai concretamente arrivare ai fatti.
Questo perché sia l’omicidio Agostino che l’omicidio Grassi vennero realizzati dalla famiglia Madonia, di cui Salvino era membro. I Madonia governavano al tempo il mandamento di Resuttana. Capo indiscusso Francesco Madonia, giudicato responsabile di stragi, stermini (come quello dei Buscetta), omicidi eccellenti a poliziotti e magistrati. Arrestato e rilasciato più volte - al tempo i mafiosi godevano ancora di una sostanziale impunità - nel tempo affidò il suo regno ai figli: Salvino Madonia, Giuseppe Madonia, Aldo Madonia e Antonino Madonia. Dei quattro, quest’ultimo, oltre che essere il primogenito era anche il più potente, ben più temuto del padre. Nino Madonia (condannato di recente in primo grado per l’omicidio del poliziotto Agostino) vantava, come Salvatore Biondino e pochissimi altri, rapporti e amicizie con soggetti della Questura, dei servizi segreti, della massoneria e del terrorismo nero. Era ed è uomo di mistero, di grandissima astuzia nonché uno spietato killer. Nino Madonia a Resuttana faceva il bello e il cattivo tempo, nonostante la figura di Totò Riina. E abbiamo motivo di credere, pertanto, che lo stesso delitto Grassi rientrò in questa dinamica, con il fratello che non si scomodò a chiedere permesso a Riina di poter mettere a tacere l’imprenditore che aveva osato denunciare Cosa Nostra.
A Nino Madonia Riina lo amava e lo odiava. Si sentiva preso in giro non solo per quegli omicidi. Ma perché aveva contatti personali che si teneva per sé”, aveva detto Brusca quasi due anni fa al processo Agostino.
Riina era arrivato al punto di temere Madonia. Sempre in aula, Brusca ha ricordato un episodio che ha dell’incredibile. “Nel periodo in cui Riina era latitante a San Giuseppe Jato nessuno doveva sapere quale fosse la sua abitazione. Un giorno, però, Madonia si presentò in casa. Da quel momento Riina smise di essere tranquillo. Non disse che era sbirro o che aveva contatti con la polizia, ma non era sereno. Temeva anche per sé”. E poi ancora aveva aggiunto: “Era incavolato nero quando parlava di Antonino Madonia. Con affermazioni dure. Aveva timore che potesse mettere in campo una strategia contro la sua persona”.
Nino Madonia era un tiratore libero che non dava conto a nessuno e così, di conseguenza, anche il fratello più piccolo Salvino, killer di Libero Grassi. Pertanto non è da escludere che dietro quell’omicidio, vista la natura anomala del contesto in cui è maturato, ci siano stati altri scopi oltre a quelli dell'incubo del racket in cui era finito Grassi. Questo perché la famiglia di Madonia, in Cosa Nostra, operava su un altro livello, con modalità diverse e obiettivi diversi. Tutto nella massima segretezza.

L’isolamento di Stato che uccide
E diciamola la verità, Libero Grassi fu ammazzato perché venne abbandonato dallo Stato. In primis dalla giustizia del tempo. Basti ricordare la sentenza con cui vennero assolti i quattro cavalieri di Catania - Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo (soprannominati “I cavalieri dell’apocalisse” da Pippo Fava in un suo articolo su “I Siciliani”) - nella quale il giudice scrisse che non è reato ottenere la “protezione” dei boss.
E poi anche dal mondo imprenditoriale di cui Grassi faceva parte, nello specifico da Sicindustria e Confindustria che gli voltarono letteralmente le spalle. Nessuno ascoltò i suoi appelli o manifestò solidarietà alla sua persona. Tutti i maggiori imprenditori milionari, nella miglior ipotesi ipocriti e nella peggiore collusi con la mafia, tacquero avallando l’assassinio. La verità è che Libero Grassi fu solo e fu lasciato solo. Giovanni Falcone lo diceva sempre: “Si muore quando si viene lasciati soli dalle istituzioni”.

Foto di copertina © Luciano del Castilio

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