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di Giorgio Bongiovanni

In questi giorni, leggendo le pagine de Il Fatto Quotidiano, siamo rimasti assolutamente sconcertati dagli editoriali di Marco Travaglio e dall'opinione di Antonio Padellaro a seguito della condanna in primo grado (pena sospesa) a un anno e tre mesi nei confronti di Piercamillo Davigo, ex magistrato dello storico pool Mani Pulite, ex giudice di Cassazione ed ex componente del Csm, finito a processo per rivelazione del segreto d'ufficio. Una condanna grave per un magistrato, avvenuta per l'ormai noto caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara, in cui parlava dell'esistenza di una presunta "Loggia Ungheria", di cui a suo dire avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm.

Non è una questione personale.

E' inutile fare l'elenco delle tante battaglie (dalla difesa della Costituzione al racconto dei fatti in tema di giustizia, mafia, corruzione, guerra e così via) che con ANTIMAFIADuemila, cercando di portare il nostro piccolo contributo, abbiamo condiviso con Il Fatto Quotidiano.

Un giornale che abbiamo sempre considerato altamente attendibile.

Talvolta però è capitato di trovarci in disaccordo su alcuni argomenti.

Era già successo sulla questione Bonafede (con le scelte dell'allora governo Conte sulla lotta alla mafia, sulla mancata nomina di Nino Di Matteo, la questione scarcerazioni e Dap) ed oggi riaccade di nuovo.

Dopo la condanna di Davigo ecco che, da qualche giorno, su Il Fatto sono comparsi diversi editoriali a difesa dell'indifendibile ex membro del Csm, con assurde esaltazioni e paragoni altisonanti (Davigo paragonato addirittura a Giovanni Falcone) senza tener conto dei comportamenti gravi e antietici posti in essere dallo stesso ex membro del Csm.


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L'avvocato Piero Amara


Una "difesa d'ufficio" grave. E vogliamo spiegare perché.

Partiamo dallo sconsiderato accostamento a Falcone, fatto nell'articolo di Padellaro.

Nel ricordare "l'infame persecuzione di cui fu oggetto" il giudice palermitano, nel fare riferimento al “Corvo” di Palermo (le lettere anonime piene di calunnie e insinuazioni che colpirono Falcone),  alle assurde accuse subite dopo il fallito attentato all'Addaura, ha parlato della "conflittualità esistente dentro la magistratura italiana, fatta di invidie, gelosie, rancori, odi personali, allora come oggi" affermando che quel “medesimo odio” ha finito per colpire l'ex pm di Mani pulite Davigo, condannato, appunto, per rivelazione di atti d'ufficio.

Ma chi doveva avercela con Davigo se quest'ultimo da oltre 25 anni non si occupa di indagini?

Guardando alle invidie e alle gelosie Davigo ha posto in essere comportamenti simili in particolare nei confronti di altri magistrati come Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo.

Inoltre non ci risulta che Falcone sia mai stato inquisito o condannato, fermo restando che siamo ancora al primo grado di giudizio, per un reato simile.

Restando nel parallelo fatto da Padellaro, potremmo dire che Davigo, nella sua condotta, si sia avvicinato più al “Corvo” che a Falcone.

Non c'è bisogno di leggere le motivazioni della sentenza per comprendere che le informazioni riguardanti Ardita, contenute nei documenti che riportavano le dichiarazioni di Amara, fossero delle palesi calunnie messe in circolo per screditarlo e per porre in essere quello che l'avvocato Fabio Repici ha descritto come "un tentativo di golpe al Csm".

Eppure c'è chi, come Davigo, non si è fatto scrupolo, andando oltre i leciti confini, di diffondere le stesse.

E non c'è bisogno delle motivazioni per ricordare che Amara è un soggetto ritenuto inattendibile e calunniatore da ben due Procure, e che secondo la Procura di Perugia la loggia Ungheria è una bufala.


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Il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio


E' vero, dal processo è emerso che, ad eccezione del consigliere Nino Di Matteo e dello stesso Ardita, che hanno interrotto l'ignobile macchina del fango rivolgendosi alle autorità competenti, all'interno del Csm vi sono stati "imbarazzanti silenzi e inescusabili omissioni, che non possono trovare giustificazione alcuna per chi ha avuto in mano quei verbali, li ha letti e poi distrutti – così come ha scritto il gup di Roma Nicolò Marino nel motivare la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Marcella Contrafatto. Il procedimento è quello in cui l'allora segretaria di Davigo era imputata a Roma per calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco.

Tuttavia non ci si può trincerare, come ha fatto Travaglio per difendere Davigo, dietro al fatto che allo stato sono indagati per “omessa denuncia” solo i consiglieri Cascini e Marra.

Ammesso e non concesso che si stia commettendo un errore, fermo restando che allo stato non è dato sapere se siano state aperte altre indagini o meno, ciò non assolve Davigo dal fatto-reato compiuto.

Perché a prescindere dalla condanna non definitiva, Davigo ha diffuso, e lui stesso ha raccontato gli episodi, all'interno del Csm i veleni Amara.

E così facendo, nei fatti, ha colpito Sebastiano Ardita, membro del Csm.

La vicenda è divenuta più torbida nel momento in cui hanno iniziato a circolare anche dossier anonimi coi verbali di Amara spediti a giornali e al consigliere del Csm, Nino Di Matteo.

Ebbene Di Matteo, che al Csm ci era arrivato al di fuori di ogni logica correntista e con il voto dei giovani magistrati, a differenza da ciò che pone in essere un "corvo", denunciò alla luce del sole ciò che stava avvenendo con la diffusione di quei verbali.

Sentito nel processo di Brescia Di Matteo spiegò ai giudici che nelle dichiarazioni di Amara sulla “Loggia Ungheria” vi era “un tentativo di condizionare l’attività del Consiglio, di delegittimazione del dottor Ardita ma anche un tentativo di condizionamento della loro attività e, indirettamente, anche della mia”.


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Il giornalista Antonio Padellaro


Al contempo in aula Di Matteo descrisse quel clima assurdo che si era generato all'interno del Csm e l'aggressione ingiustificata che Davigo rivolse contro Ardita in una riunione "di fuoco" per discutere delle votazioni per la nomina del Procuratore capo di Roma. Un'aggressione che scatenò anche la reazione di Di Matteo ("Senti, io non mi sono fatto nemmeno condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina. Tanto meno mi faccio condizionare dalle tue minacce").

Alla luce di tutte queste gravissime azioni, noi avevamo auspicato che un magistrato come Davigo potesse ammettere il proprio errore riconoscendo lo sbaglio e chiedendo scusa alle vittime delle proprie azioni. Cosa che, ovviamente, non è ancora avvenuta.

E in queste settimane ci siamo ritrovati in un “mondo alla rovescia” paradossale in cui il “Fatto Quotidiano” giustificava e mitizzava l'indifendibile Davigo mentre la difesa dei magistrati con la schiena dritta passava nelle pagine di quotidiani come Il Foglio, solitamente noto per difendere gli indifendibili (da Berlusconi a Dell'Utri e così via).

Un teatro dell'assurdo. 

Quando si commette un errore clamoroso, chiedere scusa ai lettori non è un atto di debolezza, ma un grande atto di umiltà e di grandezza. E questo anche Padellaro e Travaglio, che sono tra i fondatori e dirigono, o hanno diretto, un grande giornale come “Il Fatto Quotidiano”, dovrebbero saperlo.

Realizzazione di copertina by Paolo Bassani

Foto interne © Imagoeconomica

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