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giornalisti uccisidi Jean Georges Almendras* - 29 agosto 2015

L’assassinio del fotoreporter Rubén Espinosa e di quattro donne, tra cui l'attivista Nadia Vera, avvenuto in Messico all'alba di venerdì 31 luglio del 2015, in un appartamento del quartiere Narvarte della capitale messicana, ha scatenato un sentimento di indignazione e rabbia in migliaia di persone, non solo in questa nazione ma nel mondo intero. Ma ciò che più amareggia dell’intera vicenda è senza dubbio alcuno che queste cinque morti non sono un fatto isolato, né una questione circostanziale. Per niente.
L'assassinio di queste cinque persone, prima colpite e torturate, dopo violentate (nel caso delle due donne) e per ultimo finite a colpi di arma da fuoco, rientra in un contesto di sangue e piombo che si sta registrando in Messico, negli ultimi anni. Una realtà che dovrebbe far vergognare tutti noi come cittadini del pianeta.
Perché?
Perché oggi come oggi, stando al titolo di un articolo dell’agenzia Reuters: "La violenza in Messico provoca più morti delle guerre di Afghanistan ed Iraq". Un dato tanto incredibile quanto certo. Basta leggere i fatti di cronaca dei giornali messicani. Il Messico è uno dei paesi al mondo con un alto indice di criminalità e spesso gli omicidi sono strettamente legati al narcotraffico. Anche per questo il Paese viene considerato come il più pericoloso per esercitare il giornalismo dopo la Siria.
Ad avvalorare la tesi vi è anche l'Istituto Nazionale di Statistica e Geografia (INEGI) che ha reso pubblici alcuni dati. Da quando è cominciata la guerra contro i narcotrafficanti in Messico (esattamente durante il governo di Felipe Calderón, nell'anno 2007), sono morte (fino al 2014), la drammatica cifra di 164 mila vittime.
Secondo la relazione del collega Jason M.Breslow, pubblicata anche dalla Reuters, in Afghanistan, dall’inizio della guerra nel 2000, sono morti circa 26 mila civili mentre in Iraq, il numero delle vittime ha raggiunto i 160.500, dall'inizio dell'invasione da parte delle truppe degli Stati Uniti. L'ONU, paragonando le due realtà concentrandosi sugli anni dal 2007 al 2014, ha calcolato che il numero di vittime registrato in entrambe le guerre totalizza circa 103 mila morti. Un numero inferiore rispetto alle vittime messicane.

Ancora, secondo l'INEGI, solo nel 2014 i morti in Messico sono stati 20.000, mentre nel 2011 andò anche peggio con 27000 omicidi registrati. Certo, come afferma il giornalista Breslow, stabilire una cifra reale delle vittime non è compito facile perché gli omicidi documentati in Messico non sono vincolati direttamente alla guerra col narcotraffico.
Dare lettura a queste cifre; prendere atto di tutte queste morti di civili; prendere atto degli omicidi di giornalisti e di attivisti sociali, come ad esempio quello di Miguel Ángel Jiménez, ucciso a colpi di arma da fuoco all’interno del suo taxi, colpevole di essersi impegnato lodevolmente a cercare i cadaveri di persone scomparse nelle colline e nei campi dove i narcos sono padroni, è un dovere morale.
Si prova stupore ed indignazione e verrebbe voglia di prendere la strada delle armi affrontando questi criminali. Il problema è che spesso sono gli uomini del potere ad alimentare ideologicamente, a proteggerli e addirittura promuoverli subdolamente, questi soggetti.

Nonostante la violenza in Messico abbia raggiunto un alto grado di impunità e di compiacenza politico-governativa, non tutti i cittadini messicani sono schierati dalla stessa parte. Ci sono persone che vivono e si comportano socialmente con paura, e non riescono ad uscire dal loro individualismo, o dal loro punto di osservazione, per alzare un muro di fronte al pesante intreccio del male, comodamente alloggiato sul grembo di alcuni governanti messicani. E dico alcuni, con la speranza di sbagliarmi.

Il nostro collaboratore in México DF, Carlos Santana, pienamente identificato nella causa di tutti i giornalisti che lottano per la verità e per la denuncia del crimine organizzato, è stato molto scosso per la morte del fotoreporter Rubén Espinosa e delle quattro donne che erano insieme a lui, e non ha voluto fare mancare la sua presenza in una delle tante giornalisti uccisi manifestazionimobilitazioni convocate per protestare contro il molteplice crimine.
Santana ci ha raccontato che il 5 agosto si è svolta una mobilitazione, convocata dalle reti sociali nella pagina "Yo soy 132" di Facebook, a Veracruz, lungo la via Versalles, nel quartiere Juárez di Città del Messico: “Inizialmente regnava il silenzio. Si sentiva soltanto il suono dei click delle macchine fotografiche dei fotoreporter che riprendevano la manifestazione. Fotografavano gli striscioni, molti dei quali accusavano Javier Duarte, Governatore di Veracruz. Vicino ai colleghi messicani c’erano dei giornalisti stranieri. Ma ciò che più ha richiamato la mia attenzione è stato costatare che gli abitanti di quella zona della città continuavano con la loro routine come zombi, frettolosi di arrivare nelle loro case a riposare o pranzare, praticamente estranei alla protesta, distanti. Nessuna sensibilità o interesse per quanto stava avvenendo in quel posto - ha aggiunto il nostro collaboratore - tanto meno di conoscere i dettagli o i motivi che avevano spinto gli assassini ad agire. Sentivo il nervosismo delle persone e coglievo gli sguardi veloci per vedere chi era presente. Dopo un po’ ho chiesto una donna che sosteneva uno striscione se conosceva qualche mezzo stampa che non fosse prostituito e che potesse offrirci delle informazioni fidate. La donna mi indicò soltanto il giornale "Proceso", dove Rubén Espinosa collaborava".
"Gli striscioni indicavano il nome del presunto colpevole dell’assassinato, con la frase: 'È' stato lo Stato'. Ad un certo punto ho visto una donna che, con mano tremula, accendeva con un accendino tre candele – ha proseguito Santana - tentava di mantenere la fiamma accesa, che si spegneva per il vento. E quasi simultaneamente vedevo spegnersi anche la protesta, perché la società non ha fermato la sua corsa per essere presente in quel momento. Più tardi è arrivata la polizia per reprimere la protesta. Siamo rimasti in 4 persone a conversare, due giovani ed una signora di circa 50 anni. All'improvviso si è avvicinato un signore che avevamo visto prima scattando foto della mobilitazione e ci ha chiesto se intendevamo fare un'altra manifestazione, aggiungendo che tutti sappiamo che siamo soggetti allo Stato. Solo dopo abbiamo saputo che quel signore era il capo di polizia”.

Il giornalista Pedro Echeverría, ad esempio, ci ha raccontato di una marcia di giornalisti nello Yucatan contro gli assassini dei loro colleghi. Una marcia dove pesavano anche i fantasmi dell'assenza, del disinteresse, e delle paure. Nonostante tutto, anche in questa occasione ci sono state delle sorprese. Il racconto – pubblicato da "Rebelión" - è eloquente: "Pensavo che avrebbero aderito soltanto sei o sette persone, considerando l’esperienza poco partecipativa dello Stato; ma eravamo presenti in 150 tra reporter, fotografi, conduttori radio, articolisti e altri 150 sostenitori della manifestazione di ripudio all'assassinio di giornalisti nella nazione. I manifestanti hanno percorso un km e mezzo partendo dal “Paseo Montejo” fino al Monumento alla Bandiera, dove è stata depositata un'urna con la fotografia di Rubén Espinosa circondata da alcune candele accese”.

Una manifestazione che si è tenuta nel silenzio, senza nessun discorso ed alcuni striscioni. C’erano giornalisti di tutti i mezzi stampa, come anche redattori e fotografi della rete di internet. Prosegue Echeverría: “Alle mie domande sul perché non esistesse nello Yucatan un sindacato di giornalisti alcuni mi risposero che c’era molta paura di perdere l'impiego. E chissà che questa prima manifestazione possa essere spunto per alcuni sindacalisti-giornalisti di Città del Messico affinché diano vita ad un’organizzazione di questo tipo. Un sindacato potrebbe unire le forze e garantire la stabilità nell’impiego, aumenti salariali e prestazioni, e anche una maggiore libertà nel lavoro. Diverse persone mi hanno detto che non sono statu uccisi giornalisti nello Yucatan ma considerando la situazione del paese, hanno detto di aver paura di essere vittime di un pazzo. Il Messico continua ad essere uno dei paesi più pericolosi del mondo per i giornalisti. Nell'ultimo decennio sono stati uccisi oltre 80 giornalisti e 17 sono scomparsi. Ugualmente, frequentemente certi mezzi di comunicazione sono oggetto di attacchi armati e di minacce, specialmente nel nord del paese. Chi c’è dietro queste intimidazioni? I cartelli della droga che vogliono far tacere i giornalisti ed i blogger che informano sulle attività del crimine organizzato e la violenza legata allo stesso".

L'esempio più crudo dei rischi che corre chi accusa "il male del governo" al quale faceva riferimento Echeverría nel suo articolo pubblicato da “Rebelión”, lo rappresenta proprio il caso dell'attivista Nadia Vera, uccisa insieme al giornalista Rubén Espinosa, la quale, mesi prima di cadere sotto la furia omicida dei suoi assassini, ha indicato con il dito il Governatore di Veracruz, come uno degli eventuali responsabili di un possibile attentato contro la vita di chi fa parte di movimenti di denuncia.
In effetti, otto mesi prima del delitto, Nadia Vera aveva concesso una video intervista alla rivista "Rompeviento", per una catena di web tv, dove esternava il suo pensiero:
"Riteniamo pienamente responsabile Javier Duarte de Ochoa, il governatore dello Stato, e tutto il suo gabinetto di qualunque cosa che ci possa accadere alle persone che facciamo parte di questo tipo di movimenti, siano essi studenteschi, accademici e della società civile in genere. Sì, vogliamo lasciare ben chiaro che la nostra sicurezza è piena responsabilità del nostro Stato, perché sono loro direttamente quelli che cercano di reprimerci".
Una morte annunciata?
Tutto fa propendere verso una risposta affermativa.

mexico libreMa non è stata solo Nadia Vera ad esprimere le sue paure, perché anche il giornalista Rubén Espinosa aveva fatto lo stesso. Non appena arrivò alla México DF, ogni volta che veniva intervistato dai mezzi stampa e ogni volta che aveva l’opportunità di dialogare con i colleghi, diceva con tono di preoccupazione: “Sono andato via dallo Stato di Veracruz perché non ci sono le condizioni, e per gli episodi accaduti. Ci sono stati 13 compagni assassinati, quattro scomparsi e se non sbaglio 17 in esilio. Semplicemente non si può, non sei al sicuro a casa tua e nessuno fa niente per salvarti".
Nei giorni a seguire l’omicidio di Espinosa e delle quattro donne che erano insieme a lui, in tutto il Messico si respirava un clima di pressione da parte delle associazioni di giornalisti che esigevano, in modo molto più che ragionevole, di evitare che il caso rimanesse coperto dal velo dell'impunità.

Gli investigatori (della Procura e delle forze di sicurezza), hanno acquisito i filmati delle telecamere di sicurezza del vicinato, che vedono i tre presunti omicida mentre si allontanano dal posto. Uno di loro sale su un veicolo Mustang di colore rosso, vicino ad un altro sospettato che carica una valigia (molto pesante in apparenza). Si vede il terzo individuo allontanarsi a piedi dal posto. Le indagini hanno portato al fermo di un uomo che sarebbe sospettato di essere coinvolto nel crimine.

Anche l’Onu, quattro giorni dopo il grave fatto di sangue, ha espresso attraverso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (UNHCHR) la sua preoccupazione e ha condannato energicamente i crimini richiamando a fortificare i meccanismi di protezione ai professionisti dell’informazione.

Lettera morta o l'anticamera di un'azione ferma e responsabile da parte delle Nazioni Unite? La morte di queste persone sensibilizzerà i burocrati dell'ONU?
O per l’ennesima volta, l'ONU non farà altro che versare lacrime di coccodrillo?
Bisognerà vedere cosa accadrà da qui in avanti.

Nel frattempo, se le indagini in corso confermeranno che l’orrendo crimine ha a che vedere con il lavoro giornalistico di Rubén Espinosa, ci troveremo davanti ad un grave atto contro la libertà di espressione.
L’ONU-UNHCHR incoraggia le autorità messicane a intensificare gli sforzi ed andare fino in fondo a qualsiasi linea investigativa, per quanto riguarda le indagini di questo caso, tanto nel Distretto Federale come a Veracruz.

All'altro estremo di questo lungo percorso di spine in cui si è trasformato il grido di giustizia in Messico, il Governatore di Veracruz Javier Duarte ha preso le distanze dall’omicidio del giornalista Rubén Espinosa. Ha dichiarato in un comunicato: "Ho risposto a tutte le loro domande –in riferimento all’interrogatorio dalla Procura- e lascio ben chiaro che non c’entro niente con i fatti accaduti il 31 luglio a Città del Messico".
Ha aggiunto di non credere ai linciaggi pubblici "che invece di creare coraggio, allontanano dalla verità ed occultano i veri colpevoli", per finalmente concludere: “la verità ci farà liberi”.

Benché fosse ovvio che il Governatore non si sarebbe assunto alcuna responsabilità sul molteplice delitto, le sue dichiarazioni sono arrivate come una doccia di acqua fredda per molti messicani. In particolar modo per le parole conclusive del su comunicato.

Quale è il senso che il Governatore Javier Duarte dà alle parole “la verità ci farà liberi"? Un'espressione capricciosa? Capziosa? Una grossolana e sfacciata provocazione lanciata al vento per seminare impunità? La sua dichiarazione volontaria -e fuori dal comune - davanti alla Procura, è stata una mossa strategica? Cosa sta succedendo veramente? Riusciranno gli investigatori a mettere le mani sugli assassini materiali ed i mandanti dell’atroce crimine?

regina martinezDi fronte a questi punti interrogativi che condividiamo con il lettore, mi sento obbligato a ricordare che Veracruz ha al suo avere un elenco di martiri molto illustri. In questi ultimi anni, la prima vittima è stata l’avvocatessa Digna Ochoa, seguita da altre vittime, tra cui la giornalista Regina Martínez (in foto). Per ultimo, il giornalista e fotografo Rubén Espinosa che benché sia morto in México DF, fa parte dell'elenco dei martiri di Veracruz.


Qualcuno potrebbe ritenere tutte questi morti fatti isolati?
Purtroppo non manca chi la pensa così.
Potremo essere tanto incoscienti nel credere che è impossibile che dalle strutture di potere si pianifichino accuratamente dei crimini?

Purtroppo c’è chi si compiace di quell'incoscienza.

Purtroppo c’è chi ventila questa possibilità, perché è più comodo dare alle strutture di potere libertà di azione, convinti che le stesse, nonostante le numerose evidenze contro, nella storia del Messico e dell'umanità, non si inquinano e tanto meno si macchiano di sangue innocente.
In uno dei suoi scritti riguardanti la morte di Rubén Espinosa e dell'attivista Nadia Vera, Arsinoé Orihuela ha detto: "La denuncia non abbatte governi né rimuove strutture socioeconomiche. Al massimo mostra le miserie di certe autorità o previene gli abusi che frequentemente accompagnano l'esercizio di potere. Ma a Veracruz tale pratica basilare è un'eresia meritoria di persecuzione, tortura, e non poche volte la morte. Il messaggio è chiaro: non sarà tollerato neanche un accenno di critica, ed il braccio di vendetta ‘veracruzano’ non conosce frontiere geografiche”.

Rubén Espinosa e Nadia Vera non esageravano quando dicevano pubblicamente “a Veracruz ci stanno annientando”.
Un'affermazione per loro profetica.

Il pomeriggio del 31 luglio del 2015 eliminarono tutti e due, dopo essere torturati, ricevettero un colpo di grazia alla testa. La stessa sorte toccò alle tre donne che si trovavano nell'appartamento: Mile Virginia Martín, colombiana, di 31 anni; Yesenia Quiroz, di 18 anni - compagne di appartamento di Nadia Vera - ed Alejandra Negrete, di 40 anni, impiegata delle pulizie nell’abitazione.

Riprendendo il testo di Arsinoé Ochoa di “La Digna Voz", facciamo nostra un’altra delle sue riflessioni: “Non è sufficiente denunciare la corruzione e l’impunità che impera indisturbata nel paese. Già quasi fa ormai notizia l'ostinata presenza di questi flagelli virulenti.

Una tale inammissibile situazione non regredirà semplicemente per una volontà istituzionale. Urge piuttosto allarmarsi di fronte a quanto sia inerme la popolazione civile, e quanto sia imperioso sviluppare anticorpi per frenare la spirale di violenza, crimini ed insicurezza che dalle file del potere e delle istituzioni ufficiali viene coltivata con entusiasmo”.  

E come asserisce Arsinoé Ochoa, col cui pensiero coincidiamo, non possiamo ignorare quella frase “ci stanno annientando”, di Rubén e Nadia, perché significherebbe alimentare il potere criminale adagiato nelle poltrone del potere.

Noi non vogliamo ignroarla, né in Messico, né in Paraguay, dove l'elenco di giornalisti caduti sotto le pallottole del narcotraffico e della narco politica è estesa.

Non possiamo ignorarla neanche al di là l'Atlantico: in Europa, in particolare in Italia, e più specificamente in Sicilia, Palermo, dove il fior fiore dei capi mafiosi mantiene il proprio potere e tiene la daga sul collo degli operatori della giustizia, e sui giornalisti che si avventurino a denunciarli. Perché tra la realtà italiana e la realtà messicana, le similitudini sono molteplici, per quanto le cifre dei morti non siano uguali. Ma la guerra tra la mafia e l'antimafia è sul campo ed è in atto. Da questo lato dell'Atlantico, la morte riscuote più vite, dall'altro lato dell'Atlantico, oggi il sangue versato non è arrivato nelle piazze, ma in circa 200 anni, ha inondato già città intere lasciando la sua schiera di vittime.

Ma lì o qui, la lotta è la stessa e le paure sono le stesse. Sono paure che non devono paralizzarci.



*con la collaborazione di Carlos Santana dal México DF

Foto ©Carlos Santana dal Messico 
Foto di Regina Martínez: heroínas.blogs.pot.com

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