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eguez claudiadi Jean Georges Almendras
Povertà e crimine: componenti della popolazione vulnerabile dell'America Latina
Difficilmente potremo percepire la vera dimensione della vulnerabilità delle persone in un contesto sociale di estrema povertà e carenza di ogni genere. Difficilmente potremo metterci nei loro panni. Difficilmente potremo avere l'onestà di riconoscere che dovremmo sentire come nostri i drammi sociali, a noi sconosciuti, e di conseguenza dar loro la dovuta attenzione.
Li ignoriamo, perché la routine e la sopravvivenza, nei nostri microcosmi, ci acceca (ci desensibilizza), e non ci permette di essere sinceri con noi stessi e di conseguenza di dare uno stop alla "nostra vita" per interessarci alla "vita degli altri", se possibile di quegli altri che vivono in uno stato di necessità e di solitudine. Nella nostra dipendenza verso quel sacrosanto egoismo e individualismo cronici che avvolgono tutto il nostro essere e che ci governano, vigliaccamente ci accontentiamo di "dire a noi stessi" e “dire agli altri” (proclamare) che dobbiamo lavorare affinché i drammi sociali e le ingiustizie sociali non siano il nostro pane quotidiano dei tempi moderni, come in verità avviene. Ma l’impegno per mettere fine a quelle differenze sociali che tanto sbandieriamo rimane sempre relegato e non figura nel nostro impegno come cittadini, rendendoci irrimediabilmente incondizionati operatori dell'ipocrisia moderna, e complici di migliaia di disgrazie.
Di fronte a questa realtà sinceramente calza perfettamente il detto che tra il dire e il fare c’è di in mezzo il mare. Un mare che di questi tempi è sempre più esteso. Oggi i drammi sociali sono diventati parole, immagini, o ancora peggio, sono invisibili. Vengono soffocati e molte volte criminalizzati e giudicati. Un giudizio perverso al servizio di un capitalismo barbaro e crudele che raramente viene messo in discussione, specialmente quando il dramma sociale è decisamente scomodo. Scomodo al punto che si arriva quasi a credere negli uomini ed in questo sistema, come se per un atto di magia potessimo comprendere e accettare la realtà altrui come se fosse nostra.
Quindi, per quanto il dramma in se possa scuotere, come appunto la storia che oggi mi sento in obbligo di condividere con i lettori, la ruota dell'indifferenza segue il suo corso ed è precisamente per tale ragione che mi obbligato a rimarcare il dramma di oggi, che racchiude in sé altri drammi ed altre realtà. Drammi e realtà della società umana dei nostri giorni. Giorni in cui l'uomo libero è esposto e vulnerabile a perdere la libertà in un secondo, attorniato da quei mali che non gli appartengono, ma che lo avvolgono accanendosi e divorandolo. Mali che sono lì, dietro l'angolo. Mali (insiti nella "meravigliosa civiltà moderna" nella quale ci troviamo a vivere), tali come la povertà, il narcotraffico, le differenze (ingiustizie) sociali ed il sistema dentro il quale ci siamo tutti senza eccezione. Un sistema che lacera e corrode (e calpesta), la dignità umana, tutti i giorni dell'anno, sotto i nostri occhi.
La storia che affrontiamo è stata resa pubblica dal giornale argentino Pagina 12, grazie alla penna della collega Irina Hauser, al cui talento narrativo ci permettiamo di attingere per divulgarla ancora, anche senza chiederle permesso. Ma credo che la storia merita bene un'infrazione di tale natura e di sicuro chiudere un occhio da parte della redattrice (che ringraziamo).
La storia è quella di Claudia Suárez Eguez. Una donna boliviana che è stata in una prigione argentina per quasi un anno per traffico di un chilo di cocaina. L’unico suo scopo era ricavare 700 dollari per poter pagare la chemioterapia per suo figlio di 13 anni malato di cancro. Le autorità riuscirono a far fallire il tentativo, e nella notte del 24 ottobre 2017, alla frontiera tra Argentina e Bolivia, il pagamento dei narcos non si concretizzò, e non fu possibile fare la chemioterapia, ed ovviamente Claudia finì in prigione (dove diede alla luce la sua quarta figlia). Inoltre, suo figlio si aggravò, e finalmente la giustizia (prima di scarcerarla), le concesse un permesso di un mese per stare vicino a lui, che in quei giorni morì a causa dell’ormai avanzato stato della sua malattia. L'unica consolazione che il destino concesse a Claudia, nella sua drammatica e per niente invidiabile situazione, fu di poter stare vicino a suo figlio negli ultimi sei giorni della sua vita. E basta. Ora Claudia continua la sua vita, prendendosi cura di sua figlia nata in reclusione e delle altre due bambine, in attesa dell’archiviazione del suo caso di cui si sta occupando il suo difensore d'ufficio.
Ed ora noi che guardiamo la sua storia dall’esterno, facciamo le nostre riflessioni. Su cosa riflettere? Cosa dire?
Senza ipocrisie diciamo, e riflettiamo sul fatto che questo mondo, e questa società, è semplicemente una merda, dove accadono situazioni di merda. Così semplice. Non c’è spazio per altre riflessioni o altre conclusioni.
Claudia, 33 anni, parla con la giornalista Irina Hauser. Si sentono telefonicamente. Claudia si trova nella città boliviana di Montero, nel dipartimento di Santa Cruz.
"Una fa di tutto per i propri figli. Io l’ho fatto perché avevo bisogno di denaro, e mi offrivano 700 dollari. Lei sa cos’è la disperazione?" racconta Claudia alla collega di Pagina 12. E le dice anche che dopo essersi ricongiunta con suo figlio Fernando e averlo abbracciato, lui è morto dopo pochi giorni.
Hauser racconta nella sua cronaca che il giudice federale di Salta, Dr. Ernesto Hansen le concesse la scarcerazione, benché ancora in attesa di processo. Ma fortunatamente Claudia sarà a casa sua, vicino alle sue tre figlie, la più piccola nata mentre era in prigione a Güemes, in provincia di Salta.
Claudia ha raccontato alla giornalista che a suo figlio Fernando era stato diagnosticato un tumore alla gamba destra, un tumore che cresceva velocemente e richiedeva chemioterapia urgente; nel suo paese non ci sono terapie gratuite. Le raccontò anche che lavorava come domestica e come aiutante in cucina, e faceva decorazioni e centro tavola per le feste di compleanno per mantenersi. Quando suo figlio si ammalò e doveva portarlo in ospedale, si trovò in serie difficoltà per portare avanti tutte queste attività e quindi il venerdì preparava degli ‘stuzzichini piccanti’ per poter pagare le medicine. Ovviamente il denaro non bastava.
"Ho dovuto prendere la decisione di portare cocaina, solo un chilo, ma le cose andarono male e non ho potuto più stare con i miei figli. Io sapevo quello che stavo per fare, anche se non conoscevo nessun altro che lo aveva fatto, ma così avrei potuto continuare a pagare le spese mediche di mio figlio e da mangiare, era quello che importava”, raccontò Claudia ad Irina Hauser.
E commentando il momento dell’arresto da parte dei gendarmi in un controllo di routine lungo la strada 34 ha aggiunto: "È stato molto doloroso per me. Avevo in mente solo il volto di mio figlio, quando lo avevo lasciato a casa”.
Penalmente questo caso, drammatico sotto ogni aspetto, da quanto riferisce la Hauser, per il Tribunale non era dimostrato che la donna “non avesse altra opzione che incorrere in un reato per salvare un altro bene giuridico prevalente", cioè la vita di suo figlio. La posizione dei giudici in Tribunale è stata implacabile: “non è credibile che una persona apparentemente costretta da una situazione economica e dal bisogno di affrontare delle spese per la malattia di un figlio a ricorrere a un reato, sia in condizioni mentali e spirituali idonee per pianificare e affrontare un viaggio di quelle caratteristiche". I giudici hanno aggiunto che è stato constatato che Fernando era sotto la cura di sua nonna e che le tre sorelle di Claudia lavoravano nella fabbrica di mattoni e come moto-taxi, e a loro sembrava sufficiente.
Il caso di Claudia Suárez Eguez si è diffuso nell’opinione pubblica e nei Tribunali di Salta e Jujuy la sua situazione ha assunto i toni di uno scandalo, mentre la prognosi medica dello stato di suo figlio che lei riceveva dalla prigione erano letteralmente drammatiche.
"Per tre mesi Fernando non fece la chemioterapia, e così la malattia è avanzata così tanto fino a dovergli amputare la gamba. Cosa potevo fare io rinchiusa? Volevo solo parlare con lui ma era molto difficile. Quando ci riuscivo, mi diceva che stava bene, non mi parlava dei suoi dolori. Dava coraggio lui a me, non voleva che io stessi male. Non mi diceva nemmeno niente della mia famiglia. Nessuno poteva venire a farmi visita perchè non avevano i mezzi” ha raccontato Claudia a Pagina 12.
Ed ha aggiunto: "Dove ero prigioniera a Salta alcune donne dicevano che era la seconda volta che le fermavano per la stessa cosa. Alcune erano boliviane. Per me era la prima volta ed ero molto spaventata. Parlavamo tra noi, non feci amicizia con loro. Non potevo nemmeno immaginare che avrei trascorso tanto tempo in prigione, anche se il mio difensore mi aveva avvertito. Io gli chiedevo che per favore mi aiutasse. Ma lo chiedevo anche a Dio che mi facessi un miracolo per poter vedere mio figlio. Sono credente e questo mi ha aiutato".
Claudia in prigione ha dato alla luce Sheila Jazmín e quando il Giudice Ernesto Hansen l'autorizzò a viaggiare per stare un mese con suo figlio Fernando, andò a casa sua con la neonata in braccio. E, come abbiamo detto all'inizio, ha potuto stare vicino a suo figlio negli ultimi giorni di vita.
Andrés Reynoso, il suo difensore pubblico, è stato intervistato dalla collega Irina Hauser.
"Le donne che commettono reati di contrabbando di stupefacenti solitamente sono vittime di condizioni di profonda povertà e vulnerabilità ed è stato evidenziato che dietro ci sono motivi economici concreti come la necessità di pagare delle terapie mediche per un membro della famiglia. Anche la Commissione Interamericana di Diritti umani ha evidenziato questo legame tra povertà, donne e reati legati alla droga. La povertà, la mancanza di opportunità, le barriere all'accesso all'educazione mettono donne e bambine in situazioni di vulnerabilità e le rendono obiettivi facili della delinquenza organizzata. In realtà, le donne di basso livello socioeconomico ed educativo sono più a rischio ad essere utilizzate per delle operazioni criminose come trafficanti o altro".
Nella cronaca di Hauser è stato riferito che lo Stato boliviano, dopo il decesso del figlio di Claudia, ha riconosciuto la mancanza di opportunità che ha avuto Claudia. Cioè che Claudia si è trovata di fronte ad una situazione limite.
L'avvocato ha detto anche che su di lei c’è stata una sorta di “stereotipo della criminalizzazione" come succede con altre donne per il loro genere, classe e localizzazione geografica. Non tenere conto del fatto che la storia personale della donna è inserita in un contesto di disparità sociale che ha determinato la scelta della signora Suárez Eguez, implica una pratica discriminatoria, mascherata da una presunta neutralità.
Sorprendentemente la Procura penitenziaria ha avanzato l'ipotesi che le crudeli circostanze vissute da Claudia, con la detenzione e la morte di suo figlio, dovrebbero essere considerate "una pena naturale".
Andrés Reynoso ha richiesto l'archiviazione per Claudia. E spiega alla giornalista di Pagina 12 che nel momento che ha iniziato ad occuparsi del suo caso "insieme al medico ed ai parenti abbiamo iniziato ad ottenere qualcosa" sottolineando alla collega che Claudia, dal momento in cui fu fermata, ha sempre detto che aveva fatto quello per poter pagare il trattamento medico di suo figlio.
"La diagnosi era recente, e grazie ad una fondazione aveva iniziato a finanziare una parte del trattamento. Ma l'altra parte la doveva mettere lei. Ed è a quel punto che lascia suo figlio a carico della nonna, senza risorse. A marzo, Claudia aveva un'informazione un po’ distorta da parte dei parenti che non volevano che si preoccupasse ed i figli credevano che stesse lavorando. Il medico si mise in contatto con noi e ci diede una linea temporale: Fernando incominciò il trattamento, ma lo abbandonò e ritornò in clinica quando il cancro era ormai avanzato. Abbiamo esposto ai giudici che ci trovavamo davanti ad uno stato di necessità giustificativa o ‘ex culpante’. Ma i giudici non hanno voluto crederci. La loro decisione è incomprensibile, sia dal punto della sentenza che sotto l’aspetto tecnico. Dissero che i certificati non servivano perché erano in copia semplice e quindi rimanevano solo le parole della donna. Quasi a dire che qualunque persona è capace di dire che il figlio sta per morire, e così poter uscire dalla prigione. Dovremmo abbassare gli standard. Se oggi bisogna dimostrare tutto con copia certificata autentica e atti notarili, si riduce la popolazione che può riuscire a presentare quel livello di prova”.
Quando la giornalista, (vera artefice della diffusione di questa storia di vita; una storia redenta in mezzo alla voluminosa casistica della nostra America Latina, prigioniera ancora di tutti quei barbarismi propri di un sistema di innata disumanità che deve tener conto di carenze strutturali per i più indigenti, ha chiesto all'avvocato Reynoso se la scarcerazione di Claudia è stata un'eccezione. Il professionista - con grande esperienza in questo tipo di casi (e per fortuna molto sensibile) come difensore pubblico davanti ai Tribunali Federali di Jujuy - ha risposto: "È un caso eccezionale. È la prima volta che vedo la scarcerazione per un reato come questo. È intervenuto lo Stato plurinazionale in una situazione concreta e ha dato origine, non so se ad alta voce, a un programma di politiche pubbliche per garantire il diritto alla salute. Questo intervento prima era assente. Non lo avevamo neppure per richiedere un certificato di nascita".
Difficilmente potremo percepire la vera dimensione della vulnerabilità delle persone in un contesto sociale carente di ogni cosa.
La drammatica storia di vita di Claudia è la storia della vulnerabilità di molte Claudie sparse nella nostra America Latina (e nel mondo). È la storia della stigmatizzazione dei settori sociali più colpiti dal disagio economico, lavorativo ed educativo, dove la questione di genere ed i pregiudizi fomentano discriminazioni ed intolleranze. E fomentano il rafforzamento del crimine organizzato che approfitta di manodopera costretta dalla disperazione. Quella disperazione di chi è svantaggiato e che non dovrebbe lasciarci indifferenti, perché anche noi siamo responsabili di quelle differenze sociali (e delle loro conseguenze, come nella storia di Claudia).
Noi, con la nostra indifferenza, il nostro silenzio, il nostro individualismo, ed il nostro egoismo, alimentiamo il sistema che, prima o poi, genera casi di questa natura sotto il denominatore comune della povertà e del crimine, fratelli legatissimi che colpiscono sempre i più sfortunati. Inoltre, il sistema giudiziario (o il sistema politico), essenzialmente corrotto, in ogni luogo, si sforza sempre di criminalizzare a prima vista e senza farsi scrupoli, trasformandosi nel boia inesorabile di uomini e donne, giovani e bambini il cui unico delitto è quello di essere nati e cresciuti nella povertà ed orfani di opportunità. Opportunità a loro strappate da coloro che hanno le redini della società nella quale si trovano a vivere.
Spingendoci un po' potremo perfino capire o immaginare il momento in cui Claudia optò per diventare "mula" di carico del narcotraffico; e l’istante in cui il mondo le è caduto addosso quando i cani antidroga della Gendarmeria, in piena notte, grattavano con insistenza le valigie che Claudia trasportava nella speranza di consegnare un chilo di cocaina per salvare la vita di suo figlio, un fatto che i narcos non solo non immaginavano, ma a loro importavano poco e niente i motivi del compromesso effimero che aveva portato la donna di un villaggio a commettere un reato.
Una decisione che fu determinante per la vita di suo figlio e poi per la sua.
Una storia di vita che ci colpisce e fa male, a noi. Forse ad altri scivola via: sarà un loro problema. Un problema di chi continua a spezzare vite, nella comodità della propria casa e dal suo posto i di potere. Di chi continua a attanagliare l'umanità, sotto diverse vesti, lanciando idee in occasioni democratiche e progressiste, che in definitiva sono idee inumane e criminali, perché accompagnate da atteggiamenti, gesti ed azioni altrettanto inumane e criminali, che attentano sfacciatamente contro i diritti umani. I tanto sbandierati diritti umani che oggi sono calpestati quasi religiosamente, in differenti parti del pianeta.
La storia di Claudia è la storia del nostro fallimento come società umana. Il nostro fallimento. Nostro. E se ciò non bastasse è la prova innegabile che viviamo in una società infame. Putrida a causa delle ambizioni umane che riempiono sacche di ricchezze e calpestano vite e speranze.

Foto di copertina: www.diarioPagina12.com

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