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Ci sono anni che valgono minuti, ma anche anni che valgono un secolo. Per il Messico quell’anno fu il 1994. Una serie di omicidi, o come si dice in spagnolo magnicidios, insanguinarono il paese. Il 23 marzo venne assassinato nella comuna de Las lomas taurinas di Tijuana Luis Donaldo Colosio Murrieta, il presidente in pectore del Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri). Con un colpo di pistola, in mezzo alla folla di un grande comizio, Colosio morì quasi sul colpo. L’assassino venne individuato in un personaggio piuttosto controverso, un operaio di nome Mario Aburto, che ancora si trova in carcere. A settembre venne assassinato anche il segretario generale del Pri, Ruiz Massieu. Tra gli accusati ci fu anche il fratello del presidente messicano, Raul Salinas de Gortari, che passò molti anni in carcere, prima che il panista (membro del partito di destra Partido de Accion Nacional), grande amico di George Bush figlio, Vicente Fox lo fece liberare. Qualche anno prima, nel 1988, con ogni probabilità Carlos Salinas aveva rubato le elezioni a Cuauhtémoc Cárdenas. Nella seconda metà degli anni ‘30 il padre di quest’ultimo, Lazaro Cardenas del Rio, era stato presidente del Messico con un programma estremamente popolare: riforma agraria e nazionalizzazione del petrolio. Cuauhtémoc voleva riprenderlo in mano, ma i brogli del Pri, con l’aiuto più che probabile del narcotraffico e della Cia, fecero eleggere il candidato del sistema: Carlos Raúl Salinas de Gortari. Erano gli anni della caduta del comunismo e dell’imperante reaganomics e parvero forse normali le politiche del nuovo presidente: privatizzazioni degli asset strategici del Messico, petrolio e infrastrutture, e un trattato commerciale, il NAFTA (North American Free Trade Agreement), che consentiva alle sussidiate merci statunitensi di invadere il mercato messicano, favorendo la deindustrializzazione e quindi la povertà del paese latinoamericano.
Carlos Raul Salinas de Gortari, che oggi vive in Spagna, proveniva dall’aristocrazia feudale messicana. Da bambino, nel 1951, con suo fratello, Raul, aveva ucciso la sua giovane babysitter Manuela, una bambina indigena di 12 anni. Quando la madre tornò nella ricca casa, i due fratelli urlarono: “Ya matamos a Manuela”. Infatti l’avevano fucilata per gioco.

Colosio venne ucciso allorché sembrava certa la sua vittoria. Il suo profilo piaceva ai messicani, altrimenti disillusi e inferociti con il Pri, perché lui non evitava di ammettere di aver visto un Messico con hambre. Non nascondeva, come gli altri tecnocrati con la laurea ad Harvard e la residenza a Madrid, le sofferenze che le politiche neoliberiste stavano generando in Messico. Nel mese di gennaio del 1994 inoltre si era sollevato il Chiapas sotto la guida carismatica del Subcomandante Marcos.


posadas ocampo auto

Gli zapatisti dell’Esercito nazionale di liberazione avevano mostrato non solo il malcontento delle aree rurali del Messico, ma anche il fatto, ancora più straordinario, che la storia non era finita come andava di moda dire all’epoca. Fu ucciso da Mario Aburto? Tanti, troppi ne dubitano: in Messico i sospetti si diressero quasi subito verso la cerchia di de Gortari, impaurita di perdere i vantaggi conseguiti dalle privatizzazioni e, ancora peggio, di subire indagini, impulsate dal nuovo presidente, che l’avrebbero vincolata, più o meno direttamente, con i cartelli del narcotraffico.

Il più grande narcotrafficante del secolo scorso si chiama Pablo Escobar. Quello di questo secolo è Joaquin Guzman Loera, conosciuto come “El Chapo”. Nel 1994 si trovava in carcere a Puente Grande, nello stato di Jalisco. Qualche mese prima Guzman era stato arrestato in Guatemala: aveva appena superato la frontera del Rio Suchiate, il Rio Bravo dell’America Latina. Era ricercato per un altro omicidio che aveva sconvolto il Messico – El Chapo rimase in prigione alcuni anni fino a quando riuscì a fuggire e riprendere in mano le redini del suo formidabile business: la cocaina in Messico valeva ormai molto più del petrolio. Era il 24 maggio del 1993, quando, all’esterno dell’aeroporto internazionale di Guadalajara, l’arcivescovo, nonché cardinale, Juan Jesus Posadas Ocampo, venne martoriato, insieme al proprio autista, nella sua automobile da innumerevoli raffiche di mitra. Si trovava all’aeroporto per accogliere il nunzio apostolico Nunzio Girolamo Prigione.

Secondo la versione ufficiale, l’automobile del cardinale era stata scambiata con quella del Chapo dai sicari della famiglia degli Arellano Felix, i padroni del narcotraffico di Tijuana. La morte di Posadas Ocampo sconvolse il Messico. Per la prima volta, dai tempi delle riforme di Benito Suarez, il primo amerindo e massone a governare il Messico (1857-1872), che aveva separato la Chiesa dallo stato, un presidente varcò o piuttosto fu costretto a varcare la soglia della cattedrale di Guadalajara: Carlos Salinas fu costretto a rendere omaggio alle spoglie del cardinale trucidato.

La Chiesa cattolica, o perlomeno alcuni suoi settori, mai ha creduto alla storia dello scambio di persona: un arcivescovo scambiato per un pericoloso trafficante. Qualcosa Posadas doveva saperla, qualcosa di molto scomodo e si accingeva a dirla. Forse non fece in tempo. La mafia di Sinaloa intanto continuò a crescere e anche il traffico di droga diretto a devastare le inner cities statunitensi. Fu una vera e propria strategia della tensione che ricorda quella italiana di cui ancora oggi il Messico – così lontano da Dio e così vicino dagli Stati Uniti per ricordare la massima immortale di Porfirio Diaz – continua a pagarne le conseguenze.

Tratto da: farodiroma.it
  

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