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carminati massimo 2A tre mesi dalla chiusura del processo arrivano le tanto attese motivazioni dei giudici che stabilirono pesanti condanne per i 41 imputati ma che fecero cadere il reato di mafia, il 416 bis.
di Giovanni Tizian
Non è possibile "attribuire mafiosità" all'associazione criminale che usa la corruzione per accaparrarsi appalti pubblici. Perché se di mafia si tratta allora deve emergere con forza l'impiego del metodo mafioso. Non basta, dunque, il ricorso sistematico alla corruzione. Anche se le mazzette sono inserite "nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche dove queste si rivelino particolarmente pericolose perché capaci di infiltrazioni stabili nella sfera politico-economica".

Ecco il nucleo centrale delle motivazioni tanto attese della  sentenza “Mafia capitale” . Sono trascorsi tre mesi da quando il tribunale di Roma ha smontato l'accusa di associazione mafiosa a carico di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, condannandoli, invece, per associazione semplice. Era luglio scorso, i giudici di primo grado stabilirono pesanti condanne per 41 imputati. Ma ciò che fatto più discutere è stata la decisione di far cadere il reato di mafia, il 416 bis. La corte, infatti, ha stabilito che quella governata da Massimo Carminati, il “Cecato”, è associazione di delinquenti e nulla di più. Capace, però, di corrompere e condizionare politica e istituzioni. Le condanne sono state tutt'altro che lievi: 20 anni a Carminati, 19 a Buzzi, 11 a Luca Gramazio, il politico della gruppo.
I giudici nelle motivazioni chiariscono il perché dalla loro scelta di escludere il 416 bis. E lo fanno partendo dal principio. "Perché si realizzi il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis non è indispensabile che l’associazione abbia origine mafiosa o sia ispirata o collegata necessariamente alla mafia: l’espressione legislativa '…di tipo mafioso…' va infatti intesa solo come riferimento ad un modello mafioso storicizzato, idoneo però a ricomprendere anche nuove organizzazioni disancorate dalla mafia tradizionale, che ne pratichino tuttavia i metodi".
In pratica, possono esistere organizzazioni criminali di stampo mafioso non per forza cloni di quelle meridionali. Tuttavia il tirbunale contesta il concetto della “riserva di violenza” avanzata dalla procura antimafia della Capitale. E dice: "Dare spazio, nella interpretazione della norma e nel caso delle mafie non derivate, al tema della riserva di violenza, intesa come violenza solo potenziale, consapevolmente prefigurata dagli associati ma rivolta al futuro, condurrebbe ad una interpretativa estensiva non ammissibile - senza incorrere nella violazione del principio di legalità - oltre i limiti già ampi indicati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alle sole mafie derivate".
Non solo, subito dopo aggiungono: "Estendere ancora l’interpretazione della norma fino ad includervi anche il concetto di riserva di violenza per le mafie non derivate, condurrebbe il Tribunale ad una operazione di innovazione legislativa della fattispecie criminosa, innovazione che - per quanto auspicabile - si collocherebbe inevitabilmente fuori dell’ambito della giurisdizione". I giudici, quindi, da un lato si mostrano molto rigidi nell'interpretazione della norma, dall'altro, però, «auspicano» un miglioramente della stessa. Consapevoli, pure loro, che il fenomeno mafioso è in continuo divenire.
E allora che cos'è “Mafia capitale”? Di che tipo di criminalità stiamo parlando?
Il processo, sostengono i giudici, "ha ampiamente confermato l’aggregrazione criminale di più soggetti per la commissione di un numero indeterminato di reati in due distinti settori : quello dell’usura e del recupero crediti mediante attività estorsive e quello relativo al conseguimento di appalti pubblici mediante corruzioni (anche realizzate utilizzando somme di denaro occultate da false fatturazioni) e turbative d’asta".
A compiere questa serie indeterminata di reati sono state, secondo il tribunale, due associazioni per delinquere. La procura invece ipotizzava l'esistenza di una solo clan mafioso, “Mafia capitale” appunto. La prima banda individuata dai giudici ha il suo capo in Carminati e i suoi vecchi amici di lotta armata dedita a usura e recupero crediti. La seconda è costituita da Buzzi e lo stesso “Cecato” attiva nell'infiltrazione degli appalti pubblici.
"Ritiene, dunque, il Tribunale che i due mondi - quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici - siano nati separatamente e separati siano rimasti". E che "le figure di Carminati e di Brugia (stretto collaboratore del “Cecato”) hanno costituito l’elemento di contatto tra le due realtà senza, tuttavia, che la loro presenza sia stata sufficiente a determinarne la fusione ed a generare un unicum operativo nel quale ciascuno fosse consapevole e partecipe del complesso delle attività compiute e programmate dagli altri".
Per il Tribunale, poi, non esiste neppure alcuna mafiosità “derivata”da altre formazioni criminose. Né dalla banda della Magliana né dai Nuclei armati rivoluzionari. "Non è possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la banda della magliana". Per i giudici, infatti, si tratta per entrambi i casi di formazioni criminali ormai estinti. L'unico punto di contatto tra questi mondi è "costituito dalla sola persona di Massimo Carminati". Ma questa presenza non è sufficiente, sostiene la corte.
Nelle motivazioni, però, c'è anche un riferimento al sistema marcio di corruzione che permea il mondo delle imprese e della politica. I giudici parlano di "cordate, peraltro, che non sono risultate prerogativa esclusiva del “gruppo Buzzi”, sicchè deve constatarsi un sostanziale e gravissimo inquinamento dei rapporti tra politica ed imprenditoria". Ed è proprio questa diffusa corruttela a "giustificare il sentire comune, che attribuisce a tale sistema di potere una complessiva 'mafiosità'".
Tuttavia, specificano i giudici, «tale valutazione attiene ad un concetto di “mafiosità” che non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione».
La corte conclude con un appunto, che sembra un po' la risposta ufficiale a chi ha criticato la sentenza. "Conclusioni obbligate, quelle del Tribunale (si tratta, peraltro, dello stesso collegio giudicante che nel 2015 riconobbe la mafiosità del clan Fasciani di Ostia), sia per la attuale formulazione dell’art. 416 bis c.p., sia per l’impossibilità di interpretazioni talmente estensive di tale norma da trasformarsi - con violazione del principio di legalità - in vere e proprie innovazioni legislative, che rimangono riservate al legislatore".

Tratto da: espresso.repubblica.it

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