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menti-raffinatissime-relatoriA Palermo la conferenza per il 22° anniversario della strage di Capaci
di Miriam Cuccu - 23 maggio 2014 - Video
Aula magna al completo ieri presso la Facoltà di Giurisprudenza a Palermo, dove si è svolta la conferenza “Menti raffinatissime” organizzata dall'Associazione culturale Falcone e Borsellino, con la collaborazione dell'associazione Contrariamente.
“Falcone e Borsellino si sono dovuti fermare un passo indietro, non per loro demeriti, ma perchè allora c'erano meno fonti, meno collaborazioni”. Se le parole di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, evidenziano i molti impedimenti che hanno impossibilitato i due giudici nell'arrivare a quelle 'menti raffinatissime' che già Falcone nominava all'indomani del fallito attentato all'Addaura, questo è il momento di raccogliere il loro testimone e fare un deciso passo avanti. E' quello che hanno fatto i magistrati di Palermo e Caltanissetta: i primi istruendo lo storico processo sulla trattativa Stato-mafia, i secondi nel quarto dibattimento della strage di via D'Amelio e, da oggi, nel nuovo processo Capaci bis, dove a seguito degli ultimi sviluppi investigativi si parlerà anche di concorrenti esterni a Cosa nostra.
Questi magistrati lo hanno fatto tenendo fede ai sacri principi della nostra Costituzione sulla quale hanno giurato, ma allo stesso tempo con la piena consapevolezza che non a tutti sarebbe andata giù la volontà di indagare sui misteri che tuttora aleggiano sulle due stragi. Solo che al passo avanti compiuto dai magistrati è coinciso un altrettanto deciso passo indietro di quella parte del Paese chiamata invece a scendere in campo. Esponenti della classe politica, delle istituzioni, della magistratura, della stampa si sono trincerati dietro un ostinato silenzio e hanno fatto vuoto attorno ai magistrati, ai quali non è rimasta altra alternativa che andare, nonostante tutto, ostinatamente avanti, accompagnati da una fetta della società civile che oggi ancora una volta si stringe attorno ai relatori dell'incontro, moderato dal caporedattore di Antimafia Duemila Anna Petrozzi.

“Menti raffinatissime”, come le chiamò Falcone nell'estate dell'89 dopo che il piano omicidiario perpetrato contro il giudice in prossimità della sua residenza estiva all'Addaura fallì. L'intuizione di Falcone, che in un'intervista rilasciata poco tempo dopo a Saverio Lodato parlò di “punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”, filo conduttore che percorre la storia insanguinata dell'Italia fino ai giorni nostri, è il punto di partenza della conferenza per discutere di quelle menti che, a distanza di oltre vent'anni dall'infelice quanto straordinaria intuizione di Falcone, abilmente continuano a muoversi negli ambienti di potere dell'Italia di oggi.
“Sempre Falcone – ha dichiarato Gozzo, intervenendo per primo dopo i saluti dei rappresentanti dell'associazione Contrariamente e dell'ateneo – ha detto che quella frase non è stata una esagerazione giornalistica. Ha detto che lui aveva dettato parola per parola la frase, perché voleva essere capito da queste 'menti raffinatissime'. Voleva che quelle menti raffinatissime sapessero che lui aveva capito”. “Un colpo di caldo? - domanda il pm nisseno – No. Questa frase viene dopo anni e anni di stragi di innocenti in questo Paese, decenni di stragismo. Perchè le stragi di innocenti nel nostro Paese non sono l'eccezione, bensì la regola... Perché, è evidente, c'era un tappo che doveva saltare: la nostra fragile democrazia”. Un avvertimento, ricorda Silvia Resta, giornalista televisiva, come quando Falcone “alla fine del '91 disse che Cosa nostra stava entrando in borsa”, che “non era più coppola e lupara, ma stava scalando i palazzi del potere”.
Responsabile di aver ignorato e fatto passare sotto silenzio le parole di Falcone e Borsellino, sottolinea la Resta, è anche la stampa: “In questi vent’anni l’informazione non ha fatto fino in fondo il suo dovere, forse per via di quelle menti raffinatissime che hanno controllato passaggio per passaggio, processo per processo”, “i giornalisti che hanno provato ad indagare, a puntare il dito contro il potere criminale sono stati additati come anti italiani, colpevoli di tradire la democrazia” perché “nelle grandi televisioni e redazioni è stato fatto un controllo capillare su questi temi”. Ma, ha precisato la Resta “questo ventennio non è ancora finito, e ancora oggi un giornalista non tira le somme” per “comprendere che questa mafia che Falcone aveva capito voleva scalare i palazzi c’era infine arrivata”. “Oggi sono venuta qui - ha poi concluso - per chiedere scusa a Di Matteo, a Tartaglia, a Del Bene, che non mi vedono mai durante le udienze del processo trattativa Stato-mafia. Perché a fare i servizi televisivi non mi ci mandano”. “Chiedo scusa a nome di tutta la stampa italiana, sperando che con il sostegno di tutti voi, soprattutto dei giovani, si possa riportare l’informazione a una dimensione civile”.

'Menti raffinatissime' che, ancora senza volto, dietro le quinte manovrano, pianificano, spesso condannano a morte, più di frequente inquinano le acque (e le prove) per proseguire indisturbate nel loro 'gioco grande' dove ci rimette chi si ostina a voler giocare una partita onesta.
Per decenni, esordisce Saverio Lodato, giornalista e scrittore, “ci hanno raccontato una favoletta” e per decenni “ci abbiamo creduto. Ci hanno raccontato che da una parte c'era la mafia e dall’altra lo Stato, ma non è mai andata così. In Italia c’è stato lo Stato-mafia e la mafia-Stato, e di fronte a questi due non c’era l’antimafia, bensì un pugno di magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, politici, imprenditori, gente che lavorava in banca e che alla fine degli anni '70 e inizio anni '80 decisero da soli che dovevano contrapporsi alla mafia, non avendo alle spalle lo Stato”. Cittadini dalla rara coscienza civile, e indiscutibilmente incompatibili con il sistema corrotto e corruttibile dell'Italia, oggi come allora. Così, prosegue Lodato, era Falcone. E così sono i magistrati che oggi indagano sulla trattativa e sulle stragi di Stato. “Antonino Caponnetto mi disse che persone come Falcone e Borsellino sono rari doni che ogni tanto Dio si concede di mandare su questa terra per rendere più sopportabile la vita ai comuni mortali. Ma aggiunse anche: il guaio è che lo scopriamo sempre dopo che sono morti”. “Io credo – ha concluso Lodato – che questi (i magistrati antimafia di oggi, ndr) sono i nostri eroi, che noi però dobbiamo tenere in vita, per non scoprire dopo che erano quei rari doni che il Signore ha avuto la generosità di mandarci”.
Ma all'operato di Di Matteo e degli altri magistrati del pool trattativa si contrappongono “bande di garantismo organizzato” alle quali, chiarisce Lodato “appartengono tutti, si va da Napolitano a Dell'Utri, da Eugenio Scalfari a Matacena, piuttosto che agli altri latitanti o ex ministri come Scajola”. “Ma cosa volevamo – si domanda infine – che Napolitano applaudisse sapendo di essere stato scoperto al telefono con un indagato (l'ex ministro Nicola Mancino, ndr) che si è rivolto a lui per risolvere i suoi guai processuali?”.

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“Giovanni Falcone non merita di essere umiliato dalle parate strumentali di quel potere che per perpetrare se stesso sfugge. E distrugge chi quel potere lo voleva combattere”. Nino Di Matteo, però, ha deciso di combatterlo. Condannato a morte da Totò Riina per un processo che mira ad individuare le responsabilità dei 'pani alti' ai quali a Falcone e Borsellino è stato impedito di arrivare, il pm di punta del processo per la trattativa Stato-mafia, accolto da uno scrosciante applauso da parte del pubblico (composto per una buona parte da ragazzi e studenti dell'ateneo) non può nascondere l'amarezza data dai ripetuti attacchi che è costretto a subire. Non tanto quelli di Totò Riina dal carcere, seppure agghiaccianti, quanto quelli provenienti dagli ambienti della magistratura e delle istituzioni. Accusato di protagonismo giudiziario e persino di essersi orchestrato da solo le minacce ricevute, ora vogliono persino togliere al pm le indagini sulla trattativa bis, quelle che si muovono nei gangli del potere ancora più delicati e impensabili. “Non ho apprezzato i silenzi e le mancate prese di posizioni di fronte all'opportunità e alla convenienza. – dice il pubblico ministero – Non ho apprezzato l'assordante silenzio pubblico con profili di anomalia di fronte all'attacco frontale alla Procura di Palermo con l'inedito conflitto d'attribuzione sollevato dalla Presidenza della Repubblica soltanto al mio ufficio rispetto all'indagine sulla trattativa. Anche se in passato vi erano state indagini a Firenze e Milano sugli stessi temi”. Nonostante le indagini che hanno dato vita a sentenze di tribunale, però, la trattativa continua ad essere da molti ritenuta non solo “presunta”, ma addirittura condotta “a fin di bene” per far cessare le stragi. “Più volte nei giorni scorsi  - continua il pm – un illustre esponente di questa facoltà (Giovanni Fiandaca, mai peraltro nominato da Di Matteo, ndr), candidato dal partito di maggioranza governativa, ha rivendicato il diritto di poter criticare, da giurista, l'impostazione del processo della trattativa ed i magistrati. Dico che ciò può essere giusto e sacrosanto ma prima di fare considerazioni quel professore avrebbe dovuto avvertire lo scrupolo scientifico di una più approfondita conoscenza degli atti processuali”. Di Matteo prosegue: “Nel suo libro si analizza una scarna memoria del pm fatta di 15 pagine e non le monumentali complessive risultanze di indagine e neppure l'impostazione dell'impianto accusatorio riconosciuto dal giudice dell'udienza preliminare. E non considera nemmeno che la questione giuridica che egli pone era già stata esaminata da più giudici e in altre circostanze ritenuta infondata. Un professore candidato alle elezioni ha detto di voler stigmatizzare una certa antimafia e ha attaccato i magistrati che si occupano del processo trattativa, come se volessero approfittare di questo caso per fare chissà quale carriera. L'unica promettente carriera che vedo è quella del professore candidato. Le sole prospettive che si sono aperte ai magistrati sono danni alla carriera e minacce di vita”.

Sul libro scritto a quattro mani da Lupo e Fiandaca, rispettivamente storico e giurista che sull'esistenza della trattativa “sostengono una tesi negazionista e giustificazionista” Lodato si chiede: “Ma come fa Giovanni Fiandaca ad essere candidato alle europee in quel Partito democratico che si onora di appartenere al partito di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo e sta facendo una campagna elettorale sputtanando i magistrati antimafia di Palermo?” E Lupo, continua, “è forse l'unico storico al mondo che sostiene che in Sicilia nell’immediato dopoguerra non ci fu alcun accordo tra gli alleati americani e la mafia. Tutti gli storici americani lo sostengono: in America ci fu una commissione d'inchiesta negli anni '50 da parte del senato americano” che scoprì come “il compito di Lucky Luciano, che era stato mandato in Italia, era quello di stabilire contatti nel territorio di Sicilia con la mafia. Ci dobbiamo meravigliare?” ha concluso.

Secondo Di Matteo è preoccupante il fatto che da parte della politica avanzi ciclicamente proposte per “estendere ulteriormente la liberazione anticipata anche ai condannati di mafia, abolire l'ergastolo e limitare strumento delle intercettazioni”. Ma “si coglie il vero e proprio tradimento dell'azione e del pensiero di Falcone e Borsellino” nel momento in cui viene ignorato il pericolo dilagante della corruzione in molte azioni politiche di oggi, e che i due giudici evidenziavano oltre vent'anni fa. Una su tutte “la mancata comprensione politica del nesso sempre più stretto tra i reati di pubblica amministrazione e i reati di mafia”. I primi “continuano a costituire condotte grimaldello con cui le mafie penetrano nelle pubbliche amministrazioni politiche, e invece la nostra legislazione persiste in una condizione di doppio binario: da una parte adeguati strumenti investigativi incisivi per sanzionare il comportamento ordinario della criminalità mafiosa, dall'altra la sostanziale impunità per i reati di corruzione, abuso d'ufficio, turbativa d'asta, voto di scambio, che consentono alla mafia di penetrare e condizionare le pubbliche istituzioni”. Il 416 ter rappresenta dunque “a mio avviso un parziale passo avanti” ma ugualmente “l'ennesima occasione persa per regolamentare in maniera veramente incisiva il voto di scambio”.

Di fronte alle minacce mafiose subite dai magistrati, alla pressochè totale assenza di un concreto sostegno istituzionale però, sostiene Gozzo, l'antimafia dovrebbe invece “appartenere all'ABC di tutte le forze politiche. Non può esserci una forza politica dalla parte di chi delinque. Per questo ho stigmatizzato, e continuerò a stigmatizzare, le divisioni politiche e le campagne elettorali sull'antimafia. L'antimafia deve unire e non dividere”. E soprattutto, ribadisce Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, non si può dimenticare che Falcone “era un uomo solo dal punto di vista delle scelte finali. Con amarezza raccontò cosa accadde quando iniziò a raccogliere le dichiarazioni del pentito Buscetta, perché dovette affrontare ostacoli interni ed esterni. Bisogna partire da questa solitudine e non perdere memoria” soprattutto per non “ripetere gli errori commessi tanti anni fa” ai danni di chi viveva questa solitudine perché “cercava verità e giustizia”. Per questo è ora più che mai urgente, sostiene Bongiovanni, direttore di Antimafia Duemila “stare vicino a queste persone, chiedere con forza alle istituzioni ma soprattutto alla magistratura di proteggere i suoi servitori, di dare loro spazio e agevolazione”. Prima di accorgerci, troppo tardi, di aver perso ancora una volta quei doni preziosi che il Signore ci ha generosamente elargito.

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