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Salvini all’attacco di don Ciotti. Come metterla, per evitare di rimestare nella cronaca? Partirò da una poesia bellissima, che apparentemente non c’entra niente. Una poesia di Erri De Luca del 2002. Si intitola “Considero valore”. L’autore vi allinea in una sequenza stupenda di ciò che secondo lui ha valore, dall’ “assemblea delle stelle” a “sapere in una stanza dov’è il Nord”. Un insieme di fatti e cose e pratiche che nella loro trama armoniosa ci regalerebbero, se da tutti considerati valore, un mondo cento volte migliore di quello in cui viviamo. Tra questi c’è un verbo, precisamente qualificato: “Tacere in tempo”. Il cui significato scava un abisso tra la sapienza adulta e quella giovanile. Per la sapienza adulta “tacere in tempo” è infatti un valore perché risparmia le figuracce, sottrae a rappresaglie, evita di sbilanciarsi gratuitamente. Tutela chi parla, insomma. Ma per la sapienza dei miei studenti è un valore perché evita di “ferire inutilmente”, di fare del male a qualcuno che non lo merita. Tutela chi ascolta. Due modi di vedere la vita agli antipodi.

Eppure nel caso di Salvini verso don Ciotti il tacere in tempo sarebbe stato un valore in tutti e due i sensi. Perché avrebbe evitato all’incontinente un’altra figuraccia, di lasciare scolpite nella memoria pubblica nuove parole che, per la loro incongrua violenza, lo appiccicheranno alla meno eccelsa storia politica del Paese in modo indelebile. Le famose parole che dopo un po’ di tempo bisogna rinnegare maldestramente (non l’ho mai detto, è stata una forzatura dei giornali) o confermare con orgoglio disastroso. Tipo l’uscita che chi vuol pagare un caffè con la carta di credito è un rompiballe, quando ormai, due anni dopo, bar e gelatai ti chiedono – loro!- di non costringerli ad armeggiare con gli spiccioli in cassa. Ma tacere in tempo avrebbe evitato all’incontinente anche di ferire non tanto don Luigi Ciotti (che ne ha vissute di ben peggio), ma l’intero popolo che in lui ha trovato un simbolo e una voce. Dalle migliaia di persone che hanno avuto nella propria famiglia una vittima innocente di mafia e che questo prete infaticabile sorregge tutti i giorni con una telefonata di conforto, trovando un avvocato, difendendo una causa, chiamando un prefetto, correndo a celebrare un battesimo; alle centinaia di migliaia di cittadini che dalla mafia si sentono minacciati nella loro vita quotidiana; alle più migliaia ancora che sono passate per il dramma della droga; ai milioni di credenti che in lui vedono una fede dal volto umano e amico, a partire dall’immenso mondo del volontariato: tutti arruolati dall’incontinenza maramalda di Salvini tra coloro che sarebbero felici di mandare don Luigi all’estero.

Ma il non tacere in tempo procura anche effetti suicidi immediati. Io per esempio, dopo tanto tempo, ero diventato possibilista sul ponte sullo Stretto. Ma dopo avere letto le motivazioni del ministro non lo sono più. Non solo gonfie di retorica (e ci starebbe) ma gravide di quella cultura che ha fatto per un secolo e mezzo la fortuna della mafia a Sud e a Nord. Quella per cui ogni timore e denuncia del pericolo mafioso è un’offesa agli italiani e all’Italia, perché – come si sa – mafia camorra e ‘ndrangheta sono un’invenzione delle fiabe cattive. Se mi avessero chiesto come potrebbe replicare un ciarlatano ai timori di don Ciotti avrei detto esattamente in quel modo. Con la storia delle grandi opere che danno il lavoro che sconfigge la mafia, con l’offesa al buon nome delle popolazioni. Ma il ministro non è un ciarlatano. È vero, prende le parole dall’aria che gli sembra di avere intorno e ci soffia dentro. È già stata la sua sfortuna; perciò, d’altronde, non fa più il ministro dell’Interno.
Ma quella reazione così irragionevole e offensiva mi ha insospettito, e molto. Perché il non tacere in tempo mette nell’aria perfino più parole di quelle che escono dalla bocca.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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