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Una parte della verità è svelata, ma va fatta luce su mandanti e concorrenti esterni

E’ notte fonda a Milano quando in via Palestro, l’agente della polizia locale Alessandro Ferrari nota una Fiat Uno fumante parcheggiata davanti alla sede del Padiglione d’arte contemporanea di Milano. Non sa che all’interno della vettura sono nascosti 90kg di tritolo pronti a brillare. Il poliziotto allerta quindi i vigili del fuoco che arrivano sul posto. Alle 23.15 però l’auto esplode uccidendo il vigile, i pompieri Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno. A venire ucciso è anche Moussafir Driss, un ragazzo marocchino, raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina. Dodici le persone feriti. L’esplosione fa inoltre crollare il muro esterno del Padiglione e provoca, nella notte, l’esplosione di una sacca di gas che si era creata in seguito alla rottura di una tubatura causata dalla deflagrazione. A danneggiarsi è quindi lo stesso padiglione ma anche alcune opere in esso contenute. Il botto è così grande che fa sobbalzare l’intera città. Tutto questo è avvenuto la notte del 27 luglio di ventinove anni fa. Quella stessa notte a Roma altre due esplosioni danneggiarono le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. “Un tentativo di Golpe”, definì gli attentati l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi in quelle ore tese e concitate. 
Non aveva tutti i torti. Pochi mesi prima c'erano stati gli attentati in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti). Quella che era in corso quei giorni, infatti, era in sostanza l’esecuzione materiale della strategia di matrice terroristico-eversiva di Cosa nostra. Una strategia inaugurata nel ’92 e proseguita per piegare, a colpi di bombe, lo Stato alle richieste politiche della mafia inserite nel papello che Cosa nostra presentò in qualche modo alle istituzioni. 
“Dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace” diceva il capo dei capi Totò Riina ai suoi nel ’91, prima di dare inizio alla campagna terroristica. 
In un primo momento, dopo l’esito del maxi processo, l’obiettivo di Cosa nostra era da un lato la classe politica sulla quale si era appoggiata per anni e della quale si era persa la fiducia (omicidio Lima) e dall’altra il fine di vendetta nei confronti dei nemici (Giovanni Falcone in primis), in un secondo momento, dopo la strage di via d’Amelio che vide un’accelerazione anomala con la morte di Borsellino dopo appena 57 giorni, il target si spostò sul patrimonio artistico-culturale italiano.
Nel mezzo vi fu un contatto tra istituzioni e Cosa nostra con un dialogo diretto tra uomini del Ros ed il sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Quel dialogo avviato “per fermare le stragi” (come dissero gli stessi carabinieri) in realtà, come dicono altre sentenze definitive, rafforzò il convincimento di Cosa nostra che le stragi pagassero. 


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La facciata della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma devastata dall'esplosione © indeciso42


E nel 1993 vi fu una nuova ondata di bombe con l’obiettivo di colpire opere d’arte, ma che non risparmiò affatto vite umane. 
Non a caso vennero colpite basiliche, chiese e gallerie storiche, come quella degli Uffizi a Firenze (27 maggio ’93) e, appunto, la Pac di via Palestro. 
Tutti obiettivi che a Riina, probabilmente, suggerì qualcuno. Il pentito Pietro Riggio disse al processo Capaci Bis che l’ex senatore (condannato per concorso esterno alla mafia), avrebbe indicato a Cosa nostra “quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”. 
Oggi il co-fondatore di Forza Italia è indagato proprio come mandante esterno delle stragi del’93 dalla procura di Firenze insieme a Silvio Berlusconi e anche questi elementi sono osservati dalla Dda. I magistrati da mesi stanno raccogliendo documenti e svolgendo interrogatori e perquisizioni per comprendere se ci sono gli estremi per incardinare i padri di Forza Italia come mandanti esterni dell’attentato. Intanto però sappiamo, grazie a due diverse inchieste, l’identità e le responsabilità degli esecutori materiali della strage che colpì il cuore economico del Paese. 
In ordine: Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e i fratelli Tommaso e Giovanni Formoso. Tutti condannati. 
Assolto definitivo, invece, Filippo Marcello Tutino, che era stato accusato di essere il presunto basista della strage di via Palestro per aver partecipato al furto della Fiat Uno e per aver fornito supporto logistico agli esecutori materiali. Secondo i giudici della Corte di Cassazione non sono sufficienti le sole dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza per metterlo alla sbarra per la strage (l’ultima messa a segno da Cosa nostra). 
L’ex braccio destro dei fratelli Graviano, noto per aver smentito il “picciotto della Guadagna” Vincenzo Scarantino che aveva raccontato una verità falsata sulla strage di via d’Amelio, ad aver permesso ai magistrati la ricostruzione dei membri del commando stragista. 

“La biondina”
Ma all’appello, potrebbe mancarne uno. Anzi una. Si tratterebbe, infatti di una donna. 
Oggi è noto che è stata iscritta nel registro degli indagati Rosa Belotti che, secondo l’ipotesi investigativa, potrebbe aver guidato la Fiat Uno fino a via Palestro. Su di lei stanno indagando i magistrati della Dda di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco, guidati dal procuratore Giuseppe Creazzo (da poco trasferito). I pm l’hanno interrogata a marzo dopo che su loro delega era stata perquisita il 3 marzo scorso dai Carabinieri della sezione Anticrimine dei Carabinieri del Ros di Firenze. La 57enne si è riconosciuta in una foto mostratale dai magistrati dopo quasi tre ore di interrogatorio. Si tratta di una foto risalente al 1992, trovata nel corso di una perquisizione - nel settembre 1993 ad Alcamo - a due ex carabinieri che detenevano un arsenale di provenienza mai chiarita (l'ipotesi è che si trattasse di armi nascoste in un nasco di Gladio). Un anno fa, grazie a un sofisticato sistema di ricerca, la foto è stata comparata dal Ris con le foto segnaletiche presenti nella banca dati delle forze di polizia, con esito positivo riguardo il nome dell'imprenditrice: il resto lo ha fatto il confronto con l'identikit, ricavato dal racconto di due testimoni presenti in via Palestro che avevano visto una donna bionda al volante dell'auto (si parlava di una “biondina”) e, in un secondo momento, sul lato passeggero. Rosa Belotti però sostiene di non aver nulla a che fare con la strage di via Palestro. Si vedrà. Entro la fine dell’anno la Dda di Firenze dovrebbe chiudere le indagini sulle stragi del 1993. Che venga archiviato o approfondito con un eventuale processo, il fascicolo, riaperto nuovamente dopo anni a Firenze, conterrà certamente delle novità anche sulla strage di Milano.

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