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Saverio Arfuso era stato condannato dalla Corte d’Appello di Trento a “anni 8, mesi 10 e giorni 20 di reclusione” per associazione mafiosa e riduzione in schiavitù. La sentenza della Cassazione, che ha reso definitivo il giudizio, aveva così certificato le infiltrazioni della 'Ndrangheta in val di Cembra (Trentino), il polo estrattivo del porfido. La Cassazione ha condannato il 50enne anche a pagare 3.686 euro a ciascuna delle parti civili: Fillea Cgil, Filca Cisl, Libera, Nomi e numeri contro le mafie e Provincia di Trento. La Suprema Corte, sesta sezione penale (Presidente Ricciarelli Massimo; relatore Giordano Emilia Anna), aveva rigettato i ricorsi proposti dagli avvocati difensori di Arfuso, scrivendo, nelle motivazioni depositate questo mese in cancelleria, che il ricorso presentava una “manifesta infondatezza” in riferimento agli attacchi alla “completezza e logicità della motivazione della sentenza impugnata”. I giudici di Appello, ricordiamo, avevano ritenuto che la locale trentina, facente capo a Innocenzio Macheda, costituisse un gruppo associato delocalizzato dei clan calabresi; gruppo che aveva mantenuto solidi legami con i clan operanti in Cardeto e altri paesi del reggino e aveva ritenuto accertato che il gruppo criminale si fosse stabilmente inserito nell'economia locale, soprattutto nella gestione di cave di porfido, settore nel quale erano operativi Giuseppe Battaglia e Mario Giuseppe Nania, suo prestanome. Gli associati avevano intessuto rapporti con le istituzioni locali di interesse (consigli comunali e amministrazioni separate degli usi civici), tanto che i fratelli Battaglia avevano ricoperto cariche negli enti locali oltre che con un candidato alle elezioni provinciali per avvisarlo del sostegno che avrebbe ricevuto dai calabresi, trovando copertura finanche presso la Stazione dei Carabinieri di Albiano come emerso in occasione del pestaggio di Hu Xupai, nel quale erano stati direttamente coinvolti Mustafà Arafat e Bardul Durmishu, datore di lavoro del predetto, e del pestaggio dei giovani identificati come autori di atti vandalici delle imprese di cui sono stati mandanti e autori Innocenzio Macheda e Mario Giuseppe Anania. Gli associati avevano, infine, costituito un'associazione culturale, denominata "Magna Graecia", presieduta da Giuseppe Paviglianiti - che si faceva promotore di incontri fra i sodali e di organizzare aiuti materiali per gli associati delle cosche di Bagaladi - e con revisori dei conti Demetrio Costantino e Domenico Morello, questi attivo nel settore della logistica, che manteneva i contatti con una cellula ‘ndranghetista romana e con un imprenditore, Giulio Carini, operante nella zona del lago di Garda, contatto utile per ottenere affidamento dei lavori nel settore edile a personaggi calabresi. Gli ermellini nelle ventidue pagine di motivazioni hanno ricostruito la sentenza di Appello evidenziandone che “nella trama argomentativa della sentenza impugnata” non vi è “alcuna lacuna motivazionale” ricordando che “la Corte di appello ha fatto riferimento a episodi specifici partendo dal violento pestaggio di Hu Xupai a seguito della rivendicazione delle legittime pretese, pestaggio riconducibile non solo alla mano di Bardul Durmishi, suo datore di lavoro ma che aveva registrato il coinvolgimento di Arafat Moustafa e Selman Hasani, gestori di ditte di porfido (condannati per tali reati) e l'interessamento di Giuseppe Battaglia, Mario Giuseppe Nania, Bruno Saltori e Giovanna Casagranda. Le conversazioni intercettate avevano consentito di ricostruire i collegamenti di Arafat Moustafa con Mario Giuseppe Nania - al quale aveva riferito il fatto - e, quindi, con gli esponenti calabresi ai quali erano riconducibili la gestione schiavista del personale (pagamento tardivo di stipendi irrisori), evidenziando come il personale fosse tenuto in stato di soggezione e indotto a non denunciare gli abusi per timore delle violente ritorsioni che avrebbero potuto subire; timore, aggiunge la sentenza impugnata, rafforzato dalle compiacenti modalità, verso gli autori del sequestro e pestaggio di Hu Xupai, delle attività di indagine svolte, nell'occasione, dai Carabinieri. Un ruolo, quello di Arafat Moustafa, che emerge non solo dalla vicenda ora illustrata ma dalle stesse parole con le quali, in occasione di un incontro con Angelo Lorenzi, artigiano della filiera del porfido, lo minacciava di ritorsioni evidenziando di essere vicino al calabrese Macheda”.

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