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aula tribunale6di AMDuemila
Si recava in Tribunale in bicicletta, saliva le scale, entrava in aula e rassicurava i suoi fedelissimi al processo contro il clan di Porta Nuova. Era questo il modus operandi di Tommaso Lo Presti, detto anche “il Pacchione”. Il capomfia comunicava con i gesti delle mani e con i segni degli occhi. A raccontare il dettaglio durante il dibattimento in corso davanti alla quarta sezione della Corte d’appello (processo “Pedro”) è il collaboratore di giustizia Francesco Chiarello, in quel processo imputato. In primo grado, conclusosi il 14 dicembre 2014, portò alle condanne di sedici su diciannove imputati per un secolo e mezzo complessivo. Chiarello, condannato allora a 14 anni, l’altroieri ha risposto alle domande del sostituto procuratore generale Rita Fulantelli. “Non sono un bugiardo, so quello che dico. C’era, “parlava” con noi” ha ribadito in aula quando gli hanno contestato che i primi accertamenti non avrebbero confermato la presenza di Lo Presti come spettatore di quel processo. Ed in effetti i controlli potrebbero non essere stati così capillari. Durante la sua deposizione Chiarello ha poi riferito delle estorsioni che avrebbe compiuto con Daniele Lauria e Ivano Parrino, condannati in primo grado a 20 e 19 anni, e con Nunzio La Torre (quest’ultimo assolto). Il pentito ha anche confermato le accuse nei confronti di Matteo Rovetto, il poliziotto che, secondo l’accusa, dava informazioni ai boss. In primo grado è stato condannato a cinque anni. “Il suo nome - ha ricordato - lo appresi solo dopo, dagli atti processuali. Ma sapevo che c’era un agente che ci agevolava”. Tra le altre cose Chiarello ha anche detto di aver parlato dell’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, ma sul fatto ci sono indagini ancora in corso e il tema non è stato approfondito.

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