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fava-dipintodi Marika Demaria - 31 dicembre 2013
Trent’anni fa l’omicidio di Giuseppe Fava. Depistaggi, solitudine dei famigliari, un lungo processo. Oggi la sua figura di intellettuale rivive grazie al docufilm “I ragazzi di Pippo Fava”, all’impegno di tanti giornalisti che guardano al direttore de «I Siciliani» quale esempio di giornalista con la schiena dritta, alla fondazione a lui dedicata e diretta dalla figlia Elena Fava. Nelle sue parole, il ricordo di questi tre decenni.
Giovedì 5 gennaio 1984, Catania. Giuseppe Fava esce dalla redazione del mensile Ÿ«I Siciliani» che dirige. Sale sulla sua Renault 5. Deve andare al teatro Verga, dove la sua nipotina Francesca, figlia di sua figlia trentatreenne Elena, sta recitando una parte in “Pensaci Giacomino”. Sono le 21.30. Giuseppe Fava arriva in via dello Stadio ma non fa in tempo a scendere dalla propria automobile: viene ucciso con cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca.
Giornalista, redattore, direttore, ma anche sceneggiatore e autore teatrale. Un intellettuale di grande spessore, capace di raccontare con coraggio e tenacia ciò che stava accadendo in Sicilia e in modo particolare a Catania. Una città in cui Giuseppe Fava si era laureato nel 1943 in Giurisprudenza, trasferitosi dalla sua cittadina, la siracusana Palazzolo Acreide, dove era nato il 15 settembre 1925.

Credeva in un “concetto etico del giornalismo”, Pippo Fava. Poiché riteneva che “in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Un dogma attuato in qualsiasi redazione in cui Giuseppe Fava abbia lavorato: da «Espresso Sera» al «Giornale del Sud» fino ad arrivare, appunto, a «I Siciliani». Che vengono così presentati dal proprio direttore, il giorno del debutto della testata: “I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione. Lo spaventoso lampo di violenza, che una dopo l’altra, ha reciso la vita di uomini (Mattarella, Costa, Pio La Torre, Dalla Chiesa) al vertice della società, ha drammaticamente rappresentato e spiegato la dimensione della mafia e della sua immane potenza. Ma questo lampo ha svelato una verità più alta e tragica: la mafia è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale. E dietro la mafia, quel lampo sanguinoso ha fatto intravedere altri problemi immensi che per decenni sono stati considerati soltanto tragedie meridionali, cioè, secolari, inamovibili, distaccate dal corpo vivo della Nazione e di cui semmai il Paese pagava il prezzo di una convivenza, e che invece appartengono drammaticamente a tutti gli italiani, costretti a sopportarne il danno, spesso il dolore, talvolta la disperazione”.
Al fianco di Giuseppe Fava, in redazione lavoravano alcuni giovani, apostrofati in senso dispregiativo come “i carusi di Fava”: il figlio Claudio, Riccardo Orioles, Michele Gambino e Antonio Roccuzzo. Proprio dal libro di quest’ultimo, intitolato “Mentre l’orchestrina suonava Gelosia. Crescere e ribellarsi in una tranquilla città di mafia” (Mondadori, 2011), è stato tratto il docufilm “I ragazzi di Pippo Fava” che è stato trasmesso in anteprima il 23 dicembre al teatro Massimo di Catania e che sarà trasmesso in prima serata il 5 gennaio da Rai Tre. Il Miur ha inoltre espresso la volontà di diffonderlo nelle scuole. Inoltre, il numero di dicembre 2013 della testata on line «I Siciliani giovani» (www.isiciliani.it) è “interamente dedicato a riflessioni e testimonianze sui «Siciliani» e a Giuseppe Fava”, si legge nell’editoriale che precisa, riferendosi sempre al numero in uscita: “Non contiene i consueti servizi e inchieste, che riprenderanno dal prossimo numero. Le pagine del Direttore e del professore D’Urso, nella sezione centrale del giornale, sono riprese fotograficamente dai «Siciliani» del 1983, con le inevitabili imperfezioni tipografiche di cui ci scusiamo”.
«In occasione del trentennale dell’omicidio di mio padre – spiega Elena Fava, medico e presidente della Fondazione Fava – abbiamo messo in campo diverse iniziative. Oltre alla proiezione del docufilm, il 4 gennaio si svolgerà uno spettacolo che permetterà di portare sul palcoscenico i vari lavori teatrali di mio padre, che, in qualità di autore, non solo scriveva le sceneggiature ma individuava anche gli attori per le diverse parti. Il 5 gennaio sarà inoltre deposta una corona di fiori in via Giuseppe Fava, già via dello Stadio». Due anni fa, poche ore dopo la commemorazione, ignoti rubarono i fiori. Segno che per molti il cognome Fava è ancora scomodo. Prontamente però, grazie alla famiglia e a tantissimi cittadini sensibili, un altro mazzo di fiori ha preso il posto di quello ignobilmente rimosso. «Il giorno dell’anniversario Maurizio Chierici sarà inoltre insignito del Premio Fava edizione 2014, e successivamente i ragazzi di Pippo Fava daranno vita a un confronto e dibattito».
Il giornalismo di Giuseppe Fava ha fatto scuola. Il suo modo di interpretare questo mestiere, di incarnarlo, di attuarlo sono sicuramente un esempio per chi intende essere “con la schiena dritta”. Racconta Elena Fava: «Mi manca quel supporto morale, di sostegno, quel motivo di sfogo. Lui era un punto di riferimento nel giornalismo e sono certa che se fossi andata da lui raccontandogli determinati fatti, avvenimenti lui ne avrebbe scritto, non avrebbe fatto cadere la cosa nel vuoto. Mio padre ha sempre svolto il suo lavoro con grande allegria e grande senso dello humour, la sua non era semplice curiosità ma interesse umano che lo rendeva felice di fare quel lavoro. Non credeva di essere in pericolo di vita. Mesi prima si era verificato il cosiddetto caso Tortora e lui  era convinto – ce l’aveva anche detto – che sarebbe stato delegittimato, eliminato come lui, attraverso la diffamazione. Amava profondamente la vita e non avrebbe fatto nulla per mettere a repentaglio la nostra incolumità. Dopo l’intervista che rilasciò il 28 dicembre 1983 – una settimana prima di essere ucciso – ad Enzo Biagi nella trasmissione “Filmstory”, molti ci fecero notare che mio padre era stato coraggioso nelle sue affermazioni, che erano tuttavia risultate pericolose».
Vale la pena rivederla integralmente, quell’intervista. Tangibile la lungimiranza di Giuseppe Fava che sottolineava come “i mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo – cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità che credo abiti in tutte le città italiane ed europee – il problema della mafia è molto più tragico e importante, un problema di vertici di gestione della Nazione che rischia di portare al decadimento politico, economico e culturale l’Italia. I mafiosi non sono quelli che uccidono, quelli sono gli esecutori, anche ai massimi livelli”.
«Il 5 gennaio 1984 – ammette Elena Fava – ha segnato uno spartiacque, io distinguo sempre un prima e un dopo. L’informazione era scarna, mio padre quando era redattore denunciava attraverso le opere teatrali, le sceneggiature; quando diventa direttore de «I Siciliani» diventa un uomo scomodo, pericoloso: non per le sue inchieste, ma perché fa riflettere, fa scoprire la normalità. I catanesi dicevano che la mafia era a Palermo senza rendersi conto delle commistioni presenti nella loro città. Dopo il 5 gennaio 1984 c’è stata molta solitudine, la diffamazione perché si è voluta seguire la pista passionale. Noi abbiamo deciso di rimanere qui: è la scelta più difficile perché è più facile scappare, andare via, ma abbiamo fatto la scelta giusta. Il delitto Fava solo dopo molti anni è stato riconosciuto di matrice mafiosa, come ben racconta mio fratello Claudio nel libro “Nel nome del padre”». Ventisette anni all’epoca dei fatti, lo sceneggiatore – tra i film più conosciuti “I cento passi” ed “Enrico Mattei-L’uomo che guardava al futuro” – e vice presidente dell’attuale Commissione Parlamentare Antimafia, così scriveva in quel libro: “Chi ha voluto che mio padre fosse ucciso, non ha avuto bisogno di riunire tribunali mafiosi, di processare fantasmi, di emettere sentenze di morte; sarà stata sufficiente una strizzata d’occhi, un cenno del capo: è un uomo pericoloso, avranno detto, un uomo libero, e le sue parole feriscono. E non credo – qualcuno lo ha scritto – che quel killer, con le cinque revolverate sparate alla nuca di mio padre, abbia ucciso anche se stesso, la propria speranza di redenzione, la propria ribellione contro l’emarginazione e contro il destino di uomo pagato per uccidere altri uomini. Balle. Quelle speranze le ha uccise la violenza e la stupidità di centomila voti o di cento miliardi; e le abbiamo uccise anche noi che, dopo i funerali di Stato, torniamo silenziosamente a vivere, mentre qualcuno già raccoglie le corone di fiori per rivenderle al prossimo feretro”.
Il processo è durato nove anni e si è arrivati alla condanna in Cassazione nel 2003 che ha condannato all’ergastolo Nitto Santapaola quale mandante dell’omicidio ed Aldo Ercolano come esecutore, insieme al reo confesso Maurizio Avola, che ha patteggiato una pena di sette anni.
«Dopo la sentenza – prosegue Elena Fava – una parte di Catania si aspettava che di Giuseppe Fava non si parlasse più, ma se oggi siamo ancora qui a ricordarlo evidentemente quella parte di Catania si sbagliava. Purtroppo il nostro paese ha la memoria troppo corta e spesso si ricorre alla scorciatoia dell’eroe: ricordiamo le vittime di mafia come tali, le commemoriamo il giorno del loro anniversario di morte e trasmettiamo il messaggio che appartenevano a un’altra razza, che hanno fatto qualcosa di eccezionale. È diventato un punto di riferimento, la sua biografia fa comprendere che ognuno può fare ciò che ha fatto, lui, cioè bene il proprio dovere, senza sentirsi un condannato a morte. Molti giornalisti ma molti cittadini in generale hanno preso coraggio ed esempio da lui. Io vivo al Nord e tocco con mano la convinzione che qui alberga: la mafia esiste solo al Sud».
Le cronache giudiziarie ci raccontano invece che tanti, troppi Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa continuano ad operare, ad ogni latitudine e longitudine, nell’ombra ma anche spudoratamente alla luce del sole: “Improvvisamente amabili ed improvvisamente collerici” come Mario Rendo, “piccolini e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore” come Gaetano Graci, “prepotenti, massicci e sprezzanti” alla stregua di Carmelo Costanzo (“l’unico catanese che abbia osato pretendere ed ottenere un gigantesco appalto a Palermo”), “soavi, silenziosi e apparentemente timidi…efficienti, precisi, puntuali, rapidi” come Francesco Finocchiaro.
Elena Fava conclude con un desiderio: «Spero un domani che ogni famigliare di vittima di mafia possa essere chiamato solo con il proprio nome e cognome, senza specificare di chi sia parente. Quando ciò accadrà, significherà che la storia dei nostri cari sarà diventata patrimonio dell’Italia intera».

Tratto da: narcomafie.it

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