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fava-giuseppe-web2Roberto Citran interpreta il monologo di Claudio Fava
di Maria Grazia Gregori Milano - 24 novembre 2013
«In nome del padre», monologo tratto dall'omonimo romanzo pubblicato nel 1966 da Baldini e Castoldi, è un racconto di forte impatto emotivo scritto da un figlio - Claudio Fava, uomo politico, giornalista, sceneggiatore, scrittore - per riallacciare un rapporto, ideale ma impossibile se non nella memoria, con il padre tolto brutalmente ai suoi affetti e alle sue battaglie da un'esecuzione mafiosa. I fatti sono noti, ma è bene ricordarli. Il padre di Claudio, Giuseppe detto Pippo, giornalista, drammaturgo, direttore del Giornale del Sud e poi della rivista I Siciliani da lui fondata dove lavorava anche il figlio, viene ucciso alla guida della sua Renault la sera del 5 gennaio 1984 con cinque colpi alla testa sparati da una pistola calibro7,65 in una strada di Catania. Il testo teatrale visto al Teatro della Cooperativa (poi in tournée), con la regia di Ninni Bruschetta e interpretato con misura esemplare da un ottimo Roberto Citran (inizi teatrali, oggi soprattutto noto come attore cinematografico), scava nella complessità dei rapporti familiari con l'intenzione di metterne in luce soprattutto il senso dell'importanza di un ricordo, che vada aldilà del lutto familiare per farsi appassionata testimonianza civile ed etica.

Per raccontarlo bastano solo tre sedie - una rossa e due color legno - e un fondale su cui vengono proiettate delle immagini a cominciare da quella allo stesso tempo terribile e lucida di Giuseppe Fava (foto) nel corso della sua ultima intervista televisiva (dicembre 1983) dove risponde alle domande di Enzo Biagi, per dare il «luogo», allo stesso tempo privato e pubblico, in cui si snoda il confronto a posteriori fra un figlio e un padre che non può rispondergli, assunto come modello di vita e di coraggio. È un ponte gettato fra presente e passato nato dalla rabbia, dalla solitudine, ma soprattutto dal bisogno di riannodare i fili di un rapporto troppo presto interrotto. Ecco allora che a venire in primo piano è la viltà strisciante di chi all'inizio vorrebbe ridurre la tragedia a un banale fatto di corna, i depistaggi che ne sono seguiti quando ormai l'ipotesi del delitto amoroso non reggeva più, le ispezioni continue della finanza nella sede del mensile I siciliani alla ricerca di qualche sgarro che non c'era, l'omertà, i giudici compiacenti pronti a insabbiare quando a chiederlo è il potente di turno, con l'eccezione luminosa di Antonino Caponnetto al quale Claudio si rivolge per avere giustizia, le bugie, gli «antimafiosi in doppiopetto». Su tutto brilla il ricordo dolce, straziante e privato dal figlio accorso all'obitorio per avere notizie del padre e se lo trova di fronte, non ancora composto, con i suoi amati calzini rossi%% In nome del padre è un bell'esempio di teatro non solo civile ma anche politico, non gridato, intimista e allo stesso tempo corale, che affronta una delle piaghe irrisolte della nostra società, la mafia, con le sue collusioni a ogni livello, scritto e interpretato con una profondità, con una lucidità così forte che ci piacerebbe vederlo in scena non solo nei teatri ma nelle nostre scuole.

Tratto da: L'Unità del 13 Novembre 2013 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 18) nella sezione "Speciali"

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