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ingroia-antonio-web30di Simone Ferrali - 22 ottobre 2013
Prima puntata dello speciale di You-ng.it sul Processo Mori-Obinu (mancata cattura di Bernardo Provenzano).
Nella prima puntata dello speciale di YOU-ng.it sul processo al generale Mori e al colonnello Obinu, vi proponiamo l’intervista che ci ha rilasciato Antonio Ingroia. Il leader di Azione civile, prima di partire per il Guatemala, si è occupato del procedimento per la mancata cattura di Provenzano, a carico dei due Carabinieri. Mori e Obinu sono stati assolti in primo grado, ma, viste le motivazioni della decisione del Tribunale (sulle quali torneremo nelle prossime puntate), come afferma lo stesso Ingroia, la “Procura di Palermo ha una miriade di ragioni per potere impugnare la sentenza“.

Dottor Ingroia, su oltre 1330 pagine di motivazioni, quasi 800 sono dedicate a temi che non riguardano il reato ascritto agli imputati Mori e Obinu. Il collegio della quarta sezione del Tribunale di Palermo si è portato avanti con il lavoro, occupandosi anche di argomenti che riguardano altri procedimenti in corso a Palermo e a Caltanissetta (processo sulla Trattativa e Borsellino quater). Che cos’è, una spending review giudiziaria? Una sorta di prendi tre paghi uno?

Penso che sia un modo singolare, discutibile e certamente anomalo, di motivare una sentenza su un fatto specifico, ragionando sui massimi sistemi giudiziari. Siamo di fronte ad una serie di paradossi. Innanzitutto, spesso si accusa la Magistratura inquirente di fare troppi voli pindarici e di non attenersi mai ai fatti concreti dell’imputazione, quando, in un caso come questo, è la Magistratura giudicante che, in modo un po’ stravagante sul piano giuridico, rovescia l’ordine logico della trattazione. In un processo come quello in cui era imputato Mori per favoreggiamento di Provenzano, nel quale bisognava innanzitutto confrontarsi sulle prove relative ai fatti del capo d’imputazione, la corte si è dilungata sul contesto e su quelle prove che l’accusa ha presentato come ‘movente’ della condotta contestata. L’iter motivazionale sul piano logico invece prevede l’inverso: prima si verifica se il fatto c’è e poi, verificata la sussistenza del reato, si esaminano le ragioni per le quali si è posta in essere quella condotta. La verità è che c’è una sorta di palese pregiudizio da parte dei giudici, che ha fatto sì che venisse invertito l’ordine logico dei motivi della decisione. Avendo un obiettivo, quello di demolire l’assunto attorno alla vicenda della cosiddetta Trattativa, il Tribunale si è occupato, in modo molto discutibile, di una materia che invece è oggetto di un altro processo ben più ampio. Comunque, i giudici non hanno potuto fare a meno di registrare la sussistenza del fatto sul piano oggettivo, ossia che un favoreggiamento vi fu. Secondo la corte però non c’era l’intenzione di favorire Provenzano; fu un favoreggiamento “inconsapevole”. Me lo immaginavo, vista la formula assolutoria (il fatto non costituisce reato, ndr). Siamo di fronte ad un ulteriore paradosso: a distanza di pochi anni, lo stesso imputato (il generale Mori, ndr) avrebbe favorito “inconsapevolmente” i due boss stragisti Provenzano e Riina. Questo hanno scritto i giudici…”.

Il collegio giudicante aveva rigettato la richiesta di acquisizione di una serie di documenti relativi alla Trattativa, perché “non decisivi ai fini della decisione. Mi riferisco al biglietto con allegato un comunicato Ansa (riguardante la posizione del Ros sull’anonimo, c.d. “Corvo due”), che il generale Subranni inviò al procuratore capo Giammanco, alla nota dello stesso comandante del Ros e a quella del Dap, contenente le dichiarazioni rese da Riina presso il carcere di Opera. Nonostante ciò, nelle motivazioni della sentenza, il Tribunale si è occupato della Trattativa e di altri elementi, che, seguendo la logica della corte, avrebbero dovuto essere “non decisivi ai fini della decisione”…

Esatto! Anche questa è la dimostrazione dell’impostazione pregiudiziale dei giudici. Siccome sei giunto anticipatamente alla conclusione di assolvere, allora valorizzi gli elementi funzionali alla tua conclusione, pregiudizialmente assunta, e scarti gli elementi che depongono in senso contrario. Questo è quello che è stato fatto, valorizzando gli elementi che smentirebbero – secondo i giudici – la ricostruzione della Procura sulla Trattativa e invece scartando quelli che la rafforzerebbero. Diciamo che la Procura di Palermo ha una miriade di ragioni per potere impugnare la sentenza”.

Nelle motivazioni, i giudici scrivono che ci furono indubbiamente “scelte operative discutibili adottate nel tempo, astrattamente a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano”. Per la seconda volta, l’operato di Mori viene criticato (per usare un eufemismo) dal Tribunale di Palermo. Sorgono spontanee un paio di domande: come mai Mori, viste le “scelte operativediscutibili”, è stato promosso, prima comandante del Ros, poi direttore del Sisde? Non esisteva un Carabiniere meno incline alle “scelte operative discutibili”?

Mi rifaccio a quanto emerso nel Processo Contrada, di cui io stesso mi occupai. Bruno Contrada, in una prima fase della sua carriera, era stato un investigatore agguerrito nella lotta alla mafia. In quel periodo però, Contrada stentava a fare carriera. Poi ci fu un improvviso salto in avanti: la sua carriera decollò quando intrecciò rapporti con la massoneria, con certi ambienti legati alla mafia, portando avanti un certo modo di ‘fare Stato’. Uno Stato che anziché fare la lotta alla mafia, cerca con essa gli accordi sottobanco e le trattative. Purtroppo, la storia si ripete, anche in epoche distanti…”.

Allora, ricapitoliamo: bravi ed esperti investigatori cascano in errori imbarazzanti; secondo il Tribunale di Palermo non è provato il dolo, perciò il fatto c’è, ma non costituisce reato; lo Stato ha processato sé stesso ed alla fine si è assolto. Il rischio è che chi è imputato in processi come questi, cerchi di dimostrare la propria innocenza, facendo leva sulla propria incapacità. Che faccia il fesso per non andare in guerra…

Non voglio annoiare i lettori con una questione strettamente tecnico-giuridica, ma il tema è questo: nei processi sui reati come quello contestato al generale Mori – reati dolosi –, nei quali bisogna provare l’intenzione di ottenere un certo risultato – in questo caso quello di favorire il mafioso di turno –, l’elemento più difficile da provare è il cosidetto dolo. È proprio sul terreno del dolo che, in genere, entra in gioco una componente deduttiva nell’accertamento dell’elemento psicologico – che devi desumere dai fatti, nella loro materialità: ma l’apprezzamento della persona che ha messo in atto quella condotta, la sua storia e la sua esperienza, possono portare i giudici a pretendere la cosiddetta ‘probatio diabolica’, la prova impossibile. In sintesi, se si ritiene che il fatto è un palese favore al mafioso e si esclude che l’errore commesso sia dovuto a negligenza o disattenzione, bisognerebbe trovare, anche per esclusione, un’altra spiegazione di questo sconcertante comportamento. In questo caso però, come in quello della mancata perquisizione del covo di Riina, i giudici non danno una spiegazione alternativa, perché non può esistere una spiegazione alternativa! Ci troviamo di fronte al muro di gomma di una Magistratura che a certi livelli non arriva. Guardi che fino a cinquant’anni fa, per la Magistratura giudicante era difficile condannare un mafioso in coppola e lupara. Ricordo quando Cesare Terranova, negli anni sessanta, si trovava ad avere a che fare con giudici che assolvevano Liggio e i capi riconosciuti dalla mafia. Oggi, abbiamo fatto dei grandi progressi. Purtroppo però, ci troviamo ancora di fronte a casi sconcertanti come questi, nei quali la prova del favoreggiamento è abbastanza palese, tanto da esser riconosciuta dai giudici sul piano materiale. È il problema di una verità giudiziaria che viene consentita fino a che è compatibile con il sistema e con le vedute politiche dominanti in una determinata fase storica. Fino a cinquant’anni fa, non era compatibile con il sistema condannare il mafioso in coppola e lupara; oggi, invece, è impossibile condannare l’uomo dello Stato, che, in nome della ‘ragion di Stato’, protegge il mafioso con cui ha stretto accordi“.

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Tratto da: news.you-ng.it


ESTRATTO DAL LIBRO "IO SO"
“Ragion di Stato”
Domanda - E allora possiamo dire che la ragion di Stato, nel nostro caso, è incompatibile con le ragioni del diritto?
Risposta - Bella domanda. Ogni azione dello Stato, se necessaria per il bene dello Stato stesso, è legittima, in quanto tale? Anche indipendentemente dalla sua osservanza della legge? Indipendentemente dalla sua moralità? Un’azione criminale diventa legittima solo perché eseguita nell’interesse dello Stato? E chi può legittimare una tale azione? Chi ci difende dall’abuso della ragion di Stato? (soprattutto se questa viene coperta dal segreto?). Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia, ma spesso non lo sono. E che succede, in caso di divorzio fra le due? Succede che la ragion di Stato può costituire il movente di un reato. In questo caso, in uno Stato di diritto non c’è scelta. Il potere esecutivo non è sovrano, non ha sovranità assoluta, non è arbitro del bene e del male. La ragion di Stato non dovrebbe eludere le ragioni della giustizia. Su questa separazione si fonda appunto lo Stato di diritto.  Ma noi non siamo in uno Stato di diritto puro, visto il riconoscimento che la legge attribuisce alla sostanziale insindacabilità da parte della magistratura. C’è una verità indicibile nelle stanze del potere, un potere non conoscibile dai cittadini che si nasconde, che si sottrae ad ogni forma di controllo. E la ragion di Stato rischia di diventare un ombrello difensivo sotto il quale proteggere la parte oscura del potere, il suo volto osceno, e la storia occulta dei patti inconfessabili, compresi quelli fra Stato e mafia. Fin quando ciascuno, per la propria parte di responsabilità, non farà di tutto perché la verità, tutta la verità venga a galla, la democrazia italiana non potrà mai diventare una democrazia matura perché resterà ostaggio di quei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia.

Tratto dal libro “Io so” di Antonio Ingroia, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(pag. 59-60)

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