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dali-antonio-web1Processo all’ex sottosegretario D’Alì, i pm chiedono sette anni
di Rino Giacalone - 15 giugno 2013
Il fatto che il banchiere trapanese Antonio D’Alì, senatore dal 1994, Forza Italia e ora Pdl e comunque berlusconiano della prima ora, “è di Cosa nostra” non lo affermano i magistrati della Dda di Palermo che ieri hanno chiesto la sua condanna a sette anni e quattro mesi al gip Francolini  che lo sta processando per concorso esterno in associazione mafiosa, ma lo hanno detto diversi pentiti, anche ex uomini di onore che hanno “operato” lontano dalla provincia di Trapani, “il regno” di D’Alì, come Francesco Campanella, il politico bagherese che ha detto di avere saputo che D’Alì era a disposizione dell’associazione mafiosa.

E poi oltre Campanella tanti altri, Vincenzo Sinacori, Giovanni Ingrasciotta, Francesco Geraci, Ciccio Milazzo. Retroscena incredibili, interventi per appalti, per compiere riciclaggio di denaro, azioni per zittire uomini dello Stato, come il prefetto Fulvio Sodano, trasferito d’improvviso da Trapani ad Agrigento nell’estate del 2003, vicende ricostruite dall’ex presidente del Trapani Calcio, Nino Birrittella che ha confermato come i mafiosi non desideravano altro che la “cacciata” di quel prefetto. Per i pubblici ministeri Paolo Guido e Andrea Tarondo il senatore D’Alì mantiene da oltre 25 anni un rapporto con la più potente organizzazione mafiosa siciliana, quella del castelvetranese Matteo  Messina Denaro. Un rapporto dapprima condotto con il padre dell’attuale super latitante, don Ciccio Messina Denaro, poi proseguito con il giovane sanguinario e assassino rampollo di casa Messina Denaro. Ufficialmente i Messina Denaro erano i campieri della famiglia D’Alì, poi sono diventati altro, per i pm nessun rapporto di sudditanza ma rapporto condotto quasi da pari a pari. Il pm Paolo Guido non ha avuto dubbi nel descrivere chi sia in realtà il senatore Tonino D’Alì, un uomo dal comportamento “accorto, sottile e prudente” così come debbono essere “i nuovi mafiosi”. “Un politico che non ha mai rispettato la distanza di sicurezza dalla mafia” ha aggiunto l’altro pm Andrea Tarondo, un rapporto con quella mafia che “sa sparare quando è ora di sparare, che sa votare quando è ora di votare bene”. Una sfilza di accuse, da una fittizia compravendita di un terreno per garantire un riciclaggio di denaro per 300 milioni di vecchie lire, agli affari condotti mentre il senatore sedeva al Viminale, sottosegretario all’Interno tra il 2001 e il 2005: mentre la Dda di Palermo indagava su di lui a proposito dei rapporti con Cosa nostra, il presidente Berlusconi lo nominava sottosegretario all’Interno nel suo Governo. E’ vero che nel frattempo la Dda di Palermo chiese l’archiviazione per due volte, ma nel frattempo dall’evolversi di indagini trapanesi sui rapporti tra mafia ed impresa, sono emersi  gravi fatti, da ultimo appena pochi giorni addietro si è saputo di una intercettazione nella quale un imprenditore svela che per sapere in anteprima le procedure di assegnazione degli appalti condotti a Trapani nel 2005, in coincidenza dello svolgimento del cosidetto “grande evento” della Coppa America, era con il senatore D’Alì che si rivolgeva. Campagne elettorali, grandi appalti, vendita di immobili al ministero della Difesa, collocazione nei cantieri pubblici di materiali provenienti da imprese “raccomandate”…le accuse contro il senatore Tonino D’Alì sono queste, ma c’è una premessa molto inquietante. Quella che nel 1994 era stato già deciso dalla mafia che D’Alì da banchiere, proprietario della Banca Sicula, venduta poi alla Commerciale, doveva fare il salto in politica. I mafiosi che si stavano occupando di organizzare il partito Sicilia Libera, per portare in Parlamento propri uomini, dopo il disfacimento dei vecchi partiti, Dc, Psi, con i quali Cosa nostra aveva determinati rapporti, avevano individuato nel trapanese proprio il banchiere D’Alì, successivamente, come ha raccontato il pentito Vincenzo Sinacori, arrivò proprio da Matteo Messina Denaro lo “stop” all’organizzazione di Sicilia Libera, “abbiamo trovato altri interlocutori” ha detto Messina Denaro a Sinacori, e l’ordine “fu quello di votare Forza Italia e Tonino D’Alì” ha aggiunto Sinacori. D’Alì nel 1994 si candidò al Senato nel collegio Trapani-Marsala, sconfisse l’uscente senatore Pri Vincenzo Garraffa, il pentito Ingrasciotta ha riferito che durante quella campagna elettorale c’erano squadre organizzate dai capi mafia che di notte si occupavano di vigilare perché i manifesti elettorali di D’Alì non venissero coperti dai manifesti dell’altro candidato, Garraffa. Agli atti anche altre intercettazioni, come quella di un colloquio tra due imprenditori, uno raccontava all’altro come il capo mafia Vincenzo Virga era legato al senatore D’Alì, l’altro imprenditore si diceva stupito e l’interlocutore lo zittiva richiamandolo, “ma tu su quale pianeta vivi?”. Dieci anni di indagini dove il nome di Tonino D’Alì è sempre spuntato in diversi rapporti giudiziari, anche se la sua difesa cerca di negare la consistenza e rivendica a suo favore quelle archiviazioni che la Dda ha nel tempo chiesto. Gli avvocati Bosco e Pellegrino adesso si preparano alle arringhe a partire dal 21 giugno, nella stessa udienza però prima concluderà l’avv. Enza Rando, parte civile per Libera, dopo che nell’udienza del 14 giugno hanno concluso le altre parti civili, associazioni antiracket di Trapani e Mazara, centro Pio La Torre, Comune di Castellammare del Golfo. Questo è stato l’unico Comune a costituirsi parte civile, e il sindaco, Marzio Bresciani alle ultime elezioni non si è ricandidato perché abbandonato dalla sua maggioranza proprio all’indomani di questa decisione. La sentenza è prevista per il 5 luglio.

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