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di Roberta Sangiorgi
Testimonianza di Filippo Palmeri, persicetano, rilasciata il 12 maggio 2018 al Peppino Festival, Circolo Arci Akkatà in collaborazione con Associazione Libera, San Giovanni in Persiceto.

“Voglio raccontare la mia storia partendo dalle parole di Peppino Impastato. La mafia è una montagna di merda. Prima ti uccide e poi ti toglie anche la dignità”. Per 12 anni Filippo Palmeri e la sua famiglia a Castellammare del Golfo sono stati additati come mafiosi, sono stati isolati, evitati come la peste. Solo al processo del 2003 la Corte d’Assise di Palermo sentenziò che Gaspare Palmeri, padre di Filippo, agente tecnico della Forestale, ucciso a 61 anni in un agguato, non era un mafioso, ma una vittima della mafia. Vittima di quella guerra tra i corleonesi di Totò Riina e il clan alcamese dei Greco che negli Anni ’90 insanguinò la Sicilia. Era sull’auto sbagliata, di ritorno da una partita di calcetto a Ficuzza, quel 18 giugno del 1991. Insieme a lui morì un’altra vittima di mafia, Stefano Siragusa (32 anni), entrambi tecnici della Forestale. Furono assassinati insieme a Domenico Parisi, cognato di Lorenzo Greco, il vero obiettivo dell’agguato. Il commando che li doveva uccidere appiccò un fuoco sulla strada provinciale che porta a Ficuzza, nelle campagne di Corleone, per obbligare l’auto a rallentare, e poi li crivellò con più di 150 colpi di mitraglietta, kalashnikov e pistola. L’unico sopravvissuto fu Antonino Mercadante, 41 anni, anche lui della Forestale che, pur raggiunto da numerosi proiettili allo stomaco e al torace, fingendosi morto, riuscì miracolosamente a scampare all'agguato e a dare l’allarme. Partirono carabinieri, polizia. Nel frattempo però l’incendio aveva raggiunto l’auto che prese fuoco. “Mio padre e le altre due persone sono rimasti carbonizzati”. A Filippo si spezza la voce. “Questa è la seconda volta che racconto ciò che successe quel giorno. Quando arrivo a questo punto devo fare uno stacco perché è una cosa che mi chiude dentro. Ho trovato il coraggio di dirlo. Ecco per me è una liberazione riuscire a raccontarlo”.

La crudeltà della mafia non si limitò a quell’agguato brutale su quella strada per Ficuzza, in cui venne spezzata la vita di Gaspare.  Successe un fatto che dà idea di come il termine crudeltà sia inadeguato per spiegare l’orrore. “Abitavo a Bologna e quando mi informarono che mio padre era morto presi il primo aereo per Palermo. Con mio fratello mi recai alla Medicina Legale. Quando arrivammo ci fecero entrare in una stanza dove c’erano tre bare di zinco con tre persone sistemate come era possibile. Io e mio fratello ci siamo guardati in faccia: non si riusciva a distinguere chi fosse mio padre e chi gli altri due. Dopo un’ora siamo riusciti a riconoscerlo attraverso una sua particolarità”. Filippo fatica a parlare. “Scusate quando racconto io ritorno al momento dell’accaduto. Quello che mi è successo mi ha cambiato la vita”.

Ricorda quei momenti in cui gli vennero consegnati i poveri resti del padre. Ma la beffarda crudeltà dell’orrore mafioso doveva ancora arrivare. “Chiamo l’impresa di pompe funebri, che la sera prima aveva raccolto mio padre. Gli dico: ‘Prendiamo la bara e lo portiamo a Castellammare’. Mi risponde: “Io non posso”. Non capivo. Per quale motivo? “Vicino all’ospedale ci sono delle pompe funebri, ti puoi rivolgere a loro”. Torno all’ospedale e mi faccio dire a chi mi dovevo rivolgere, perché lì i morti se li passano l’un con l’altro. Mi dicono “A dieci metri c’è l’impresa di pompe funebri, andate lì”. “Vado con mio fratello. Abbiamo preso una bara e abbiamo portato mio padre in paese. L’impresa di pompe funebri era di proprietà di Giuseppe Madonia. Dopo 12 anni, alla fine del processo, siamo venuti a sapere che ad uccidere mio padre era stato, tra gli altri, proprio Giuseppe Madonia, colui che ci aveva venduto la bara”.

Per 12 anni, però, cioè sino al processo del 2003, Gaspare Palmeri a Castellammare è stato considerato uno che “se era lì, in quell’auto, qualche collusione con la mafia ce la doveva avere. Questo dicevano al paese” ripete il figlio Filippo, che ora ha l’età di suo padre quando venne ammazzato e vuole che tutti sappiano che era una persona onesta. “Mio padre e tutta la nostra famiglia siamo stati additati per 12 anni come mafiosi perché mio padre si trovava a bordo di quella macchina. Abbiamo trascorso 12 anni a farci domande senza risposta. Sono stato troppo in silenzio. Avevo paura che avessero ucciso mio padre perché aveva visto qualcosa. Avevo questa paura dentro che mi bloccava”.

La verità si seppe al processo con la testimonianza di Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. “Disse che il movente del triplice omicidio era colpire una sola persona, che era parente di un mafioso”. Gaspare Palmeri non c’entrava nulla: era vittima innocente. Per il triplice omicidio vennero condannati all’ergastolo Totò Riina, Salvatore Madonia (“colui che mi vendette la bara per mio padre”) e i tre “soldati” alcamesi Giuseppe Agrigento, Antonino Alcamo e Simone Bennati.

Filippo Palmeri, nonostante la riabilitazione del padre dopo le testimonianze al processo, per 20 anni ha taciuto. “Per 20 anni sono rimasto in silenzio perché non avevo a chi raccontare la mia storia. Soffrivo dentro di me maledettamente, perchè non potevo mettere in un cassetto la memoria di mio padre: sarebbe stata un’offesa che gli facevo. Mio padre è una persona onesta. Poi ho conosciuto Libera, altri familiari con cui ho condiviso la sofferenza, altre vittime innocenti e mi è scattata la volontà di fare testimonianza. Nel 2012 con Libera ho parlato per la prima volta in una scuola. E’ stato come far rivivere mio padre. E’ stata una liberazione ed anche una felicità. Per la prima volta potevo raccontare l’innocenza di mio padre. Quello che voglio dire ai giovani è che il silenzio alimenta le mafie. Con la vita di tutti i giorni, con le piccole cose, riusciamo a fare grandi cose. Peppino Impastato diceva: La mafia è una montagna di merda. E’ proprio così. La mafia mi ha ucciso il padre e mi ha venduto la bara. La mafia è proprio una montagna di merda”.

Chi è Filippo Palmeri. Il suo racconto
Voglio raccontare la mia storia personale. Nell’87 me ne sono andato da Castellamare del Golfo non per scelta mia, ma per la mafia. Avevo una impresa edile. Vedendo che lavoravo un giorno mi si affianca uno del paese e mi dice: “Vedo che gli affari ti vanno bene, possiamo fare qualcosa? Io ho due persone da mettere per lavorare”. Io che sono nato in un paese di mafia sapevo chi erano questi due.  “Se mi devi mandare due persone che la mattina vengono a fare la presenza e poi non fanno niente, le puoi tenere a casa tua” gli rispondo. Ci rivediamo dopo alcuni giorni. Mi dice: “Visto che non hai accettato la proposta dei due ragazzi possiamo fare una piccola assicurazione”. “Ma l’assicurazione si fa per l’auto”, gli rispondo facendo finta di non aver capito. L’assicurazione era pagare il pizzo, i cui proventi servivano alla mafia per mantenere le famiglie dei killer uccisi nelle guerre di mafia.  Mi sono rifiutato. Così sono cominciati i danni alla mia impresa edile. Allora sono stato costretto ad emigrare. Però, sapete una cosa? Nell’87 quando sono arrivato a Bologna pensavo di arrivare in un’isola felice. In realtà già esisteva la mafia qui. Quando uno nasce in un paese di mafia vede certe cose, certi comportamenti. Ho visto ragazzi di 20 anni che avevano imprese abbastanza grandine. Non era frutto del loro lavoro. Erano dei prestanome. Significa che la mafia già esisteva. Mi dicevano che avevo gli occhi ancora pieni di mafia. Poi nel 2013 è arrivato il processo Aemilia che ha svelato tutto. Ma dal 1987 sono passati tanti anni in cui la mafia ha potuto attecchire indisturbata. Nella ristorazione, nelle imprese edili ci sono loro. Ormai bisogna conviverci, però mai abbassare la testa. Io ho perso 20 anni, stando in silenzio, senza far conoscere la mia storia. Nel silenzio alimentiamo le mafie. Loro vogliono il silenzio.

A Castellammare, dove la mafia si vede, in un bar parlavano due collusi con la mafia e dicevano: “Lo sai che questi testimoni stanno rompendo andando nelle scuole? Noi abbiamo più paura delle scuole che della giustizia”. Vuol dire che con le nostre testimonianze iniziamo a dare fastidio. E’ importante sapere fino a che punto può arrivare la mafia. Può succeder anche qui. Qui lavorano indisturbati, sono invisibili e non fanno notizia. Ragazzi però dovete sapere che dove arriva la mafia distrugge città intere. La mafia non è solo in Sicilia, in Calabria o in Campania. L’abbiamo anche qui, sotto casa.

Tratto da: globalist.it

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