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Trent’anni dopo l’avvenuta cattura di Totò Riina, ai suoi tempi il tremendo e temibile capo di Cosa Nostra, è bene mettere un po’ d’ordine in una vicenda che all’epoca fu eclatante, ma che, con il senno di poi, resta ancora, per tantissimi versi, contraddittoria, inspiegabile, misteriosissima.
Le cose certe, consacrate dalla storia sono: che Riina venne catturato di primo mattino dai carabinieri a Palermo, all’uscita di un residence in via Bernini, mentre si stava allontanando in auto con il suo autista; che il suo covo non venne mai perquisito; che Riina è morto; e che per anni i suoi familiari hanno goduto di un occhio di riguardo, visto che la materia era delicata; che il tesoro di Riina non è mai stato oggetto né di indagini, né di ritrovamento.
Il resto, quello che per anni ha girato attorno alla fatidica data del 15 gennaio 1993 - quella, appunto, della cattura -, una sorta di “Grande Slam” di un'antimafia messa poco prima in ginocchio dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, è aleatorio, discutibile, quanto meno opinabile.
Lo Stato alla riscossa. Lo Stato che assesta il suo colpo mortale alle cosche. Lo Stato che con un colpo solo ritrova onore e dignità.
Ma che si poteva chiedere di più in quegli anni?
Difficile arricciare il naso quando un intero popolo applaude.
Difficile avanzare dubbi nel giorno in cui, per la prima volta, sembrava a tutti che fosse iniziata la controffensiva.
E fu dunque quasi naturale, quasi inevitabile, che nel trentennio successivo la grande retorica del “Grande Slam” - la cattura di Totò “u curtu”, la grande iena di Corleone - abbia finito con l’affastellare, inventandoli di sana pianta, o enfatizzandoli a dismisura, meriti investigativi, intuizioni geniali, narrazioni titaniche, che dovevano condurre, per forza di cose, alla indiscussa professionalità del reparto operativo dei carabinieri, il Ros, l’ufficio da cui era partito l’ordine della cattura del grande boss.
Era quello - e tale doveva rimanere nell’immaginario collettivo -, lo sbandierato covo degli “eroi”.
L’ufficio al quale avrebbe dovuto fare riferimento, d’ora in avanti, l’opinione pubblica italiana, prima frastornata e annichilita dalle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poi risollevata dall’arresto del loro carnefice.
Le cose sono andate un po’ diversamente. Stanno andando diversamente. Vediamo perché.
Si fosse trattato di un’operazione investigativa adamantina, non ci sarebbe stato nulla da eccepire.
Ma affinché si realizzasse quella condizione, il covo di Riina, vivaddio, andava perquisito.
Tanto per cominciare, i carabinieri vi avrebbero dovuto fare irruzione.
La cassaforte, che si trovava in via Bernini, andava aperta con la fiamma ossidrica.
I documenti segreti della Mafia, i suoi libri mastri, le sue cifre, i suoi indirizzi, i suoi recapiti telefonici, avrebbero dovuto essere svelati.
Non accadde nulla di tutto questo.
Il covo non fu mai perquisito.
E Cosa Nostra sopravvisse a sé stessa.
I carabinieri del Ros si fecero vivi quasi tre settimane dopo.


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Trovarono stanze vuote, pavimenti tirati a lucido, cassaforte vuota, come nel giorno in cui era stata installata.
Ne ha scritto una ricostruzione, con precisione e dovizia di particolari, il collega Attilio Bolzoni, in un articolo pubblicato dal “Domani” che qui merita di essere ripubblicato.
E Bolzoni non fa male a ricordare che lui e io, nel libro “C’era una volta la lotta alla mafia”, edito da Garzanti, fummo i primi giornalisti, in Italia, a sollevare pesanti interrogativi.
Intendiamoci.
Gian Carlo Caselli, il procuratore capo che si insediò nello stesso giorno della cattura epocale di Riina, le cose, in quel lontano 15 gennaio 1993, avrebbe voluto farle per bene.
Prova ne sia che diede ordine al colonnello che guidava i Ros, Mario Mori, di mettere sotto controllo il covo e di ripulirlo a dovere.
Prova ne sia che il sostituto procuratore Luigi Patronaggio - e anche qui Bolzoni ricostruisce tutto minuto per minuto -, era già in macchina per andare in via Bernini e fare irruzione.
Lungo il tragitto però, una telefonata del suo “capo”, Caselli, gli trasmise il contrordine. Un contrordine del quale, forse ancora oggi, non si dà pace. Perché?
In tutti questi anni, Mori ha detto la sua, parlando di un “disguido”.
Anche Caselli, ha detto la sua, e oggi sembra mangiarsi le mani, per aver troppo frettolosamente aderito all’opposizione di Mori, al suo inequivocabile ordine di irruzione nel covo.
Posizioni che resteranno inconciliabili. Ma trent’anni dopo, la retorica del “Grande Slam”, riceve un colpo mortale dalle parole di un insospettabile, Angelo Pellino, presidente della corte d’appello di Palermo del processo per la Trattativa Stato-Mafia.
Fra i tanti motivi adoperati da Pellino, per l’ennesima assoluzione di Mori, fra l’altro proprio per la mancata perquisizione del covo di Riina, uno dà i brividi.
L’accordo fra lo Stato e la Mafia, per giungere finalmente alla cattura di Riina, prevedeva che il covo non fosse perquisito. Perché quei documenti dovevano passar di mano, finendo a Bernardo Provenzano, che da quel giorno avrebbe preso proprio il posto di Riina.
Quello stesso Provenzano, prosegue ancora Pellino in sentenza, la cui cattura, lo Stato aveva deciso di rinviare a tempi migliori.
Sarebbe il caso che tutti quelli che si convinsero di avere preso parte al “Grande Slam” dell’antimafia, oggi se ne facessero una ragione. Vale per tutti.
Per il generale Mori, per Gian Carlo Caselli, per il capitano “Ultimo”.
Per dire solo di quelli che maggiormente si immedesimarono in una vicenda, ancora oggi, avvolta dal mistero.

Foto © Deb Photo

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La rubrica di Saverio Lodato 

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