In occasione del quarantesimo anniversario della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente Domenico Russo, riproponiamo qui di seguito un articolo del giornalista e saggista Saverio Lodato, pubblicato in questo giornale il 4 settembre 2016.
Il prefetto di Palermo era stato ucciso sì dalla mafia, come abbiamo ricordato più volte, ma sarebbe uno sbaglio non attenzionare anche gli ambienti piduisti e dei servizi segreti, entrambi operanti in quella trincea palermitana in cui Carlo Alberto della Chiesa era stato mandato a combattere da solo e con le armi spuntate.
Dalla Chiesa, il morto che fu ucciso due volte
di Saverio Lodato
Dalla Chiesa finì risucchiato nel gorgo delle complicità fra Stato e ambienti piduisti, mafiosi e servizi segreti, finanza sporca e apparati investigativi che stavano a libro paga, imprenditori dell’edilizia siciliani che muovendo da Catania avevano ormai messo abbondantemente le mani su Palermo, ambienti della Palermo bene e clan democristiani che avevano un loro guru, che si chiamava Vito Ciancimino.
Dalla Chiesa fu ucciso, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, perché il Potere romano, impersonato dall’immarcescibile Giulio Andreotti, lo spedì nella trincea più avanzata dell’Italia di quegli anni non dotandolo, metaforicamente s’intende, né di un casco, né di un giubbotto antiproiettile.
Dalla Chiesa fu fatto prefetto, senza i poteri di un prefetto, perché dovevano inventarsi un ufficiale con il pennacchio visto che qualche giorno prima del suo arrivo, che lui stesso anticipò, con esemplare senso del dovere, erano stati già debitamente scannati da quell’identico gorgo di cui sopra, Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, e Rosario Di Salvo, militante dello stesso partito, che si era offerto di fargli da autista.
Dalla Chiesa trascorse i cosiddetti "cento giorni" in una spasmodica corsa contro il tempo che, purtroppo, alla fine si rivelò per quello che era, vale a dire un macabro conto alla rovescia.
Dalla Chiesa impiegò i cosiddetti "cento giorni" per capire, connettere vecchie piste investigative che anni prima aveva iniziato a battere in quel di Corleone, sempre da fedele ufficiale dell’Arma; rinfrescarsi la memoria sui nomi dei quattro "cavalieri del lavoro" di Catania che facevano e disfacevano, a suon di mazzette, i venerandi governi dell’"Autonomia Siciliana" a Palazzo d’Orleans, già da allora centro del malaffare.
Dalla Chiesa andava in giro per le scuole a parlare con i giovani.
Lo faceva perché credeva che la lotta alla mafia non fosse esclusivo appannaggio di "specialisti della materia" -, in questo pensandola come Rocco Chinnici, il capo dell’ufficio istruzione che, qualche anno dopo, avrebbe fatto la sua stessa fine - , bensì dovere di un’intera società civile.
In altre parole, lavorava e cercava consenso.
Ma il fatto è che, lavorando, moltiplicava esponenzialmente i suoi nemici.
Dalla Chiesa, a Palermo, era detestato, era odiato, era stato messo nel mirino sin dal giorno del suo arrivo.
Mai esecuzione a Palermo, come la sua, fu annunciata, rivendicata, sbandierata, favorita, e, finalmente, messa a segno.
Sono trascorsi 34 anni da allora.
A ucciderlo furono sia lo Stato-Mafia sia la Mafia-Stato di quegli anni, che ebbero infinite identità di vedute per farlo fuori.
Dalla Chiesa, però, non era uno sprovveduto. Non era un guascone dell’antimafia. Sapeva che stava trattando nitroglicerina allo stato puro. E si volle premunire, a futura memoria, scrivendo un suo diario top secret che custodiva gelosamente nella cassaforte della sua abitazione, in villa Pajno, sede della Prefettura di Palermo, che per lui era il luogo più sicuro del mondo.
Di questa sua abitudine a non scrivere sull’acqua, ma nero su bianco, erano a conoscenza i suoi familiari, e, purtroppo, anche persone del suo entourage investigativo.
Tutto poteva pensare, Dalla Chiesa, che il luogo più sicuro del mondo, la cassaforte custodita in Prefettura, fosse esposto al furto per mano di manine e per mano di manone di quello Stato-Mafia e di quella Mafia-Stato con i quali proprio lui si era trovato ad andar di cozzo.
A che pro tenere un diario, quando si è convinti di avere lo Stato alle spalle?
A che pro tenere un diario, quando si è convinti di avere l’Arma dei carabinieri alle spalle?
A che pro tenere un diario quando si è convinti di avere alla spalle quegli esponenti del Potere Romano che ti hanno appena nominato prefetto dicendoti che ti mandano giù "per vincere la battaglia campale contro la mafia"?
Dicono: e quale sarebbe la prova che fu lo Stato, nella sua duplice sfaccettatura, a mandarlo a Palermo proprio per farlo assassinare?
Perbacco: la cassaforte fu svuotata. E il suo diario mai più ritrovato.
Che vogliamo di più?
Anche Falcone, anni dopo, scrisse un diario, che non fu mai ritrovato.
Anche Borsellino aveva un’ "agenda rossa", in cui annotava tutto, che non fu mai ritrovata.
"Il morto che cammina" deve morire, ma il morto non può lasciare i suoi pensieri e le sue scoperte per iscritto.
Un’altra morale della favola, 34 anni dopo, non riusciamo a vederla.
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