La forte tentazione, per questo trentesimo anniversario di Via D’Amelio, era quella di non scrivere neanche una parola. Per il rischio di finire risucchiati nel pozzo nero del bla bla bla, delle banalità d’ordinanza, dell’ atto dovuto per rispetto al calendario, per l’ennesima infarinatura di retorica.
O, peggio ancora, per non finire nella giostra dissennata dei regolamenti di conti fra coloro che vorrebbero conclusioni processuali della vicenda a loro uso e consumo e coloro i quali si aspettano il contrario.
Lo diciamo subito: ci tiriamo fuori dalla giostra.
Ma, abbiamo un ripensamento dell’ultim’ora.
Oggi, vogliamo scrivere di questo trentesimo anniversario.
Abbiamo letteralmente divorato, in queste settimane, quanto veniva pubblicato a proposito della strage di via D’Amelio.
Dopo tre decenni, una mezza dozzina di processi celebrati tutti in quel di Caltanissetta, la lista della spesa, però, è miserella. E quanto pubblicato in articoli, editoriali, riassunti e riassuntoni, ricostruzioni filmate e biopic (pare si dica così), o podcast (pare si dica così), o cold case (perdonateci ancora: ma pare si dica così), ci lascia in mano un pugno di imbarazzanti ovvietà. Diamo un’occhiata.
1) Dopo Capaci, Paolo Borsellino aveva capito che era giunta la sua ora.
2) Borsellino, esaminando la prima versione della matassa stragista (Capaci), ne aveva intravisto il bandolo e aveva iniziato la sua personalissima corsa contro il tempo. Capire tutto quello che c’era da capire. O morire.
3) Non a caso parlò del “Giuda” che aveva tradito Falcone; non a caso confermò la veridicità delle pagine del diario, del suo amico e collega Giovanni, sopravvissute a zampini e zamponi di Stato; non a caso si mise pubblicamente a disposizione, alla Biblioteca comunale, dei magistrati di Caltanissetta che però si guardarono bene dall’interrogarlo.
4) Quando arrivò l’esplosivo per lui, attorno a lui fu il gelo istituzionale e, in particolare, dei suoi colleghi del Palazzo di Giustizia di Palermo.
5) Il giorno della strage la bonifica anti esplosivi venne sospesa in via D’Amelio.
6) Il giorno della strage, Via D’Amelio diventò l’affollato ritrovo di uomini di tutti i servizi segreti, leciti e illeciti.
7) La danza dell’Agenda rossa, la cui esistenza da trent’anni viene certificata da tutti i familiari di Paolo Borsellino - punto su quale, a differenza di tante altre cose, hanno tutti identità di vedute - è persino riepilogata da immagini di ogni tipo. Tranne che per un dettaglio: manca l’approdo finale dell’ agenda rossa scomparsa. Quel fotogramma non c’è.
8) Infine, per gradire, Vincenzo Scarantino, fabbricatore di depistaggi in conto terzi. Mai svelati per davvero. E con esponenti delle istituzioni e qualche familiare che si prendono a pesci in faccia.
Perdonateci: ma sono tutte cose che si sanno da decenni.
Possibile che non ci sia uno straccio di novità? Proviamo a riassumere tutto in un dispaccio telegrafico.
Paolo Borsellino, che aveva iniziato a capire perché era stato ucciso Giovanni Falcone, prendeva appunti nella sua agenda rossa. Quando venne fatto a pezzi in via D’Amelio - insieme a Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano -, qualcuno (uno solo?) degli uomini dei servizi fece sparire il documento compromettente.
Infine, registi e mandanti della strage, spinsero Scarantino sul palcoscenico perché su tutto calasse il sipario.
Beh. Il fatto che a Caltanissetta siano stati celebrati una mezza dozzina di processi, con condanne esemplari per gli esecutori mafiosi, non ha spostato di una virgola il nostro grado di comprensione dello scenario torbido che ci fu dietro la strage.
Proprio l’abnormità di quanto accaduto ci dice che lo Stato italiano fu magna pars criminale in via D’Amelio.
Fu sospesa la bonifica. Passò inosservato l’esplosivo. Nessuno interrogò mai Paolo Borsellino. La sua agenda inghiottita nel nulla.
E il diabolico Vincenzo Scarantino, costretto a suon di ceffoni e percosse, a prolungare all’infinito (almeno sin dove possibile) il lavoro sporco dell’occultamento della verità.
Così è.
Perché ormai lo sappiamo. E ormai abbiamo le prove. Tutte quelle che abbiamo appena elencate.
Tenere la lente d’ingrandimento eternamente fissata su via d’Amelio è un modo per non vedere o non voler vedere quello che c’è appena accanto.
Vediamo.
Oddio ci fosse qualcuno in questi giorni disposto a fare un "focus" (scusateci: ma pare si chiami così) sulla figura di Matteo Messina Denaro. Introvabile proprio da quei giorni. Ma che, a detta di valanghe di pentiti e uomini di polizia e carabinieri, su quella strage la sa davvero lunga, ma molto, molto lunga.
E’ normale che non si trovi?
E perché l’Europa non ci chiede di trovarlo?
Il premier Draghi e la ministra Cartabia hanno mai pronunciato il suo nome?
E continuiamo.
Oddio ci fosse qualcuno, in questi giorni, disposto a osare un’audace connessione fra la riforma della giustizia Cartabia, per quanto concerne i provvedimenti che riguardano i detenuti per mafia, e i desiderata della buon anima di Totò Riina quanto a ergastolo, carcere duro.
O come interpretare la genialata di Carlo Renoldi, nuovo capo del DAP, che ha ammesso che il 41 bis divenga porta girevole, non solo per le delegazioni politiche, ma anche per associazioni sensibili all’argomento?
E l’argomento potrà essere trattato in libertà, come fosse materia da talk show, ma senza il limite degli spazi pubblicitari.
Ma torniamo a Borsellino.
I giudici antimafia, i più seri che abbiamo, hanno ormai ripetuto in tutte le salse che Borsellino morì di Trattativa fra Stato-Mafia e Mafia-Stato.
Perché non la voleva. Perché si oppose. Perché la intralciò. Ma il processo è virtualmente ancora in piedi e non sappiamo come andrà a finire.
E saremo momentaneamente appagati quando potremo conoscere ( quando sarà) le motivazioni della sentenza di secondo grado della Corte d’assise d’appello di Palermo,- presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere, Vittorio Anania - che per la Trattativa Stato - Mafia condannò i mafiosi, ma assolse gli esponenti delle istituzioni, carabinieri in testa.
Ah. Dimenticavamo.
Come ha scritto qualche giornale in queste ore: Paolo Borsellino “andò da solo incontro alla morte”.
Già. Accontentiamoci di questo, trent’anni dopo.
P.S. Per la verità un elemento investigativo nuovo ci sarebbe. E’ quello di una possibile “pista nera”, avanzato dalla trasmissione Report di Rai 3. E’ stato sollevato un vespaio anche perché si è ipotizzata la presenza a Palermo, nei giorni della strage di Capaci, preludio di quella in Via D’Amelio, di Stefano Delle Chiaie, bandito fascista, ormai scomparso. Roberto Scarpinato, ormai in pensione, ha confermato che di quella presenza ci sarebbe traccia in atti giudiziari. Ma l’avvocato Fabio Trizzino, difensore dei figli di Paolo Borsellino, ha dichiarato, più o meno, che considera questa storia un “altro depistaggio”.
Paolo Borsellino - è risaputo - era stato fascista. E su questo ci capitò spesso di scherzare. Ciò non gli impedì - e sarebbe superfluo sottolinearlo - di essere il grande magistrato antimafia che tutti sappiamo. Ci sembra giusto, a nostro personalissimo parere, indagare in tutte le direzioni. In fin dei conti, sono i magistrati a fare le indagini.
Rielaborazione grafica by Paolo Bassani
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La rubrica di Saverio Lodato
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