In occasione della trentesima commemorazione della strage di Via D’Amelio riprendiamo e ripubblichiamo un articolo dello scrittore e giornalista Saverio Lodato del 17 luglio 2007
Cose vecchie. Antiquariato mafiologico e giudiziario. Cose d'altri tempi.
È difficile sfuggire a questa sensazione tornando a scrivere, per l'ennesimo anniversario che in questo caso è il quindicesimo della strage di Via d'Amelio, dell'uccisione di Paolo Borsellino insieme a Emanuela Loi,Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano. È difficile perché un minimo di onestà intellettuale imporrebbe di non sfuggire a domande essenziali che però, in tempi come questi, suonano retoriche, out, per dirla con gergo salottiero, come se si volessero scomodare antichi fantasmi della cui perenne e ingombrante presenza in fondo ci siamo stufati un po' tutti.
È una la domanda che si impone. Cosa è rimasto di quella grande illusione? Sì, insomma, della grande illusione di uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, anche se tutti ormai almeno abbiamo imparato che questi nomi costituiscono appena il titolo di un elenco di morti ammazzati per la stessa ragione, la stessa causa, lo stesso miasmatico groviglio di complicità.
Ma scrivere degli anniversari si deve. E occorre farlo proprio quando la memoria si fa più evanescente, come in casi come questi. Cercherò allora, in questo ricordo di Paolo Borsellino, di attenermi alla preziosa indicazione dello scrittore siciliano Domenico Cacopardo il quale, il 23 maggio di quest'anno, nel corso di una commemorazione televisiva de L'Italia sul Due della strage di Capaci (Falcone, per gli smemorati), disse che il nemico peggiore dell’antimafia è la retorica, e che, di conseguenza, il modo più onesto ed efficace di ricordare quei morti è riferire fatti ed episodi, rendere pubblico quello che sino a oggi ancora pubblico non è, insomma smetterla con la panna montata di questi “uomini straordinari” (furono anche questo) e la grande favola di Borsellino e Falcone che un bel giorno la mafia uccide al culmine della loro potenza antimafiosa. Non è così. Non fu così. Le cose non andarono come racconta questa comoda vulgata. Non furono uccisi, come re medioevali, al culmine della loro potenza, furono uccisi al culmine del loro isolamento.
Proverò a riferire di una circostanza e di un episodio che mi constano personalmente. E che mettono a fuoco la questione da due visuali assai diverse fra loro. Il primo è un dato incontrovertibile. Non c'è traccia, né scritta né riferita verbalmente, del fatto che fu “l’Unità” il primo grande giornale nazionale ad accorgersi dell'esistenza e del lavoro di Paolo Borsellino. Prova ne sia l'intervista che gli feci, allora giovane cronista, in data 28 gennaio 1986. Come è noto Borsellino in gioventù era stato politicamente di destra e tale, a quel che se ne sa, rimase sino alla fine dei suoi giorni. Questo a scanso di equivoci, ché non stiamo rivendicando improponibili appartenenze politiche post mortem. Ma Borsellino, che insieme a Falcone, aveva già da tempo iniziato a predicare nel deserto (parlare contro la mafia, e in quegli anni poi) non godeva di buona stampa.
Più semplicemente non godeva di nessuna stampa.
L'intervista, se qualcuno volesse rileggerla, aveva questo titolo: Io giudice antimafia vi racconto. A quei tempi frequentavo il giornale L'Ora di Palermo, battagliero quotidiano del pomeriggio, che la lotta alla mafia l'aveva condotta sin dai tempi di Luciano Liggio e della Corleone del dopoguerra, con firme del calibro di Felice Chilanti, Mario Farinella, Marcello Cimino e, sotto un profilo letterario, Leonardo Sciascia. Bene. Ricordo bene che la mattina della pubblicazione dell'intervista su “l’Unità", mi chiamò in disparte Giacomo Galante, redattore capo de L'Ora, (qualche anno dopo sarebbe venuto prematuramente a mancare insieme alla moglie, la psicologa Gigliola Lo Cascio e i loro due piccoli bambini in una tragedia aerea a Cuba, memorabile la cronaca dell'accaduto, proprio su “L’Ora”, a firma del collega Francesco Vitale) per dirmi: “Ma lo sai che è bravo questo Borsellino? Dice cose interessanti e intelligenti. Ma questi allora la lotta alla mafia la vogliono fare sul serio?”. E qualche giorno dopo, se non addirittura l'indomani, “L’Ora” andò a intervistare Paolo Borsellino.
C'è un seguito della storia. Poco più di due anni dopo: marzo 1988. Ero appena uscito dal carcere di massimo isolamento di Termini Imerese, dove ero finito insieme al collega Attilio Bolzoni di “Repubblica” perché avevamo pubblicato sui nostri rispettivi giornali prima i diari dell'ex sindaco Dc di Palermo Giuseppe Insalaco, da poco assassinato in una strada della Palermo bene, e poi i verbali segreti della confessione di Antonino Calderone. Il fatto suscitò grande clamore nell'Italia di allora. E venuto a sapere che Vittorio Nisticò, fondatore-pioniere, nonché nume tutelare del giornale “L’Ora” sin quando fu costretto dalla crisi di vendite a chiudere i battenti, avrebbe volentieri scambiato due chiacchiere con un cronista di primo pelo come me, lo invitai a cena.
Sintetizzo il significato dei discorsi di quella cena. Nisticò, di grande e raffinata cultura, oltre che straordinaria curiosità, mi fece quasi un bonario terzo grado su questi giudici antimafia che da tempo avevano iniziato a fare capolino in Sicilia. Ovvio che a uno come lui le mie risposte saranno sembrate superficiali e insufficienti. Ma alla fine, vuoi perché il ghiaccio era rotto, vuoi perché l’essere stato arrestato mi conferiva quantomeno un piccolo titolo di merito per partecipare a quella conversazione, gli chiesi a bruciapelo: “Vittorio, ma perché voi della vecchia guardia che venite dalla stagione dell'occupazione delle terre e quindi della mafia del feudo, vi state accorgendo in ritardo di questi magistrati che invece oggi si occupano principalmente di lotta al traffico di droga? E come se aveste una piccola riserva mentale nei loro confronti". Non si sottrasse affatto. E rispose in maniera articolata e onesta. Ora mi scuso se leggendo questi miei ricordi Nisticò non si riconoscerà che in parte nelle sue parole.
Secondo il mio ricordo, in sostanza, disse tre cose: “Apparteniamo a una generazione che la lotta alla mafia l’ha condotta sin dal dopoguerra. Sul serio, al prezzo di sacrifici umani enormi. E in questo, in Sicilia, il movimento operaio e contadino non è stato secondo a nessuno".
E questo lo sapevo anch'io, che conoscevo Pio La Torre sin dai tempi della mia iscrizione alla Fgci (prima tessera 1967), e avevo letto della interminabile scia di sangue di braccianti, sindacalisti, capi lega contadini, assassinati e spesso gettati cadaveri nelle forre del corleonese, per mano di mafia. Ma Nisticò, che banale non è mai stato, aggiunse: “Il problema è che in questi ultimi anni ci siamo un po' seduti, come si dice. Ci siamo forse convinti di avere già dato e avendo vissuto in prima linea una grande stagione, non ci siamo accorti che ne stava cominciando un’altra, quella della lotta alla droga, con altri soggetti, altri protagonisti sociali. E questo è un errore, me ne rendo conto".
Infine, ripresa, la parola, aggiunse: “Voglio essere ancora più preciso e chiaro. Tu mi chiedi perché spesso, molti di noi non sono particolarmente calorosi nei confronti di questi magistrati. Hai ragione. Posso rispondere per quel che mi riguarda: ho ancora davanti agli occhi decine e decine di braccianti incatenati che un giorno sì e uno no salivano e scendevano le scalinate del Palazzo di Giustizia di Palermo chiamati dai magistrati a difendersi per reati spesso inventati di sana pianta... Non è facile dimenticare...". Se una piccola lezione vogliamo cavar fuori da questa storia, sempre attenendoci al suggerimento di Cacopardo, è che anche gli inizi, ancora prima che la fine, per Borsellino e Falcone furono in salita. E a riprova, almeno, di quanto sia stata sempre una grossolana baggianata quella dei giudici antimafia che erano "giudice rossi”, e sotto indicazioni del Pci dell'epoca "firmavano i mandati di cattura”!
Maggio 1992. Per l'esattezza il 2 maggio, verso le 8 del mattino. Ricevo a casa una telefonata di una segretaria della Procura che gentilmente, ma avverto nella sua voce un pizzico di preoccupazione, mi dice: “Stamattina venga in procura... c'è movimento... movimento che la riguarda". Quel giorno nelle librerie usciva un mio libro intitolato: Potenti. Sicilia anni 90, pubblicato dalla Garzanti di allora per volere di un grande editor, Gianandrea Piccioli che poi, stufo delle logiche compromissorie di un certo sistema editoriale italiano e con tanto di dichiarazione pubblica, decise di andare anticipatamente in pensione. Il libro conteneva un capitolo dal titolo: "C'era una volta". Conteneva fra l'altro un duro attacco a Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte, sostituti procuratori dell'epoca (il primo sarebbe rimasto sino ai giorni nostri fedele alla sua visione delle cose, il secondo avrebbe vissuto senza riserve la stagione di Gian Carlo Caselli alla guida della procura di Palermo). Ma soprattutto a Pietro Giammanco. Al Palazzo seppi che a volermi incontrare era nientemeno che Paolo Borsellino, da poco giunto a Palermo da Marsala e ora alle dirette dipendenze proprio di Gianmarco, il capo che aveva preso il posto di Curti Giardina, il procuratore che, quattro anni prima, aveva firmato l'arresto mio e di Bolzoni per il bizzarro reato di "peculato" (la violazione del segreto istruttorio non prevedeva infatti il carcere per i giornalisti), mentre l'operazione sul campo - come si dice - era stata affidata a Mario Mori, allora comandante del gruppo 1 dei carabinieri.
Il Giammanco, che avevo conosciuto in carcere durante il mio primo interrogatorio, nel frattempo era infatti diventato "capo". Tutti "bravi ragazzi". D'altra parte, Giammanco, lui stesso non ne faceva mistero, era amico personale di Salvo Lima e Aristide Gunnella, e aggiungiamo noi - forse eufemisticamente - fu una delle cause non secondarie che avevano spinto Falcone, esattamente due anni prima, ad abbandonare anticipatamente la sede di Palermo per l'incarico a Roma al ministero di Grazia e giustizia.
La porta dell'ufficio di Borsellino era spalancata. Mi affacciai sulla soglia e lo vidi circondato da pile di fotocopie. Mi apparve teso e nervoso. “Sono le fotocopie del suo libro, caro Lodato”. “Strano” replicai “il libro se tutto va bene è arrivato in libreria da meno di un'ora e avete avuto già il tempo di fotocopiare?”. Lui si sciolse in un accenno di sorriso: “Lei” e giocò sul titolo del libro “sottovaluta i potenti mezzi della nostra Procura... È vero. Ieri era il 1° maggio e le librerie erano chiuse, ma lei che è l’autore dovrebbe sapere che c’è una piccola libreria a Roma a Campo dei Fiori che è sempre aperta... E il mio “capo” aveva molta curiosità di leggerlo... Avranno mandato i motociclisti a Roma... i carabinieri a cavallo... non so che dirle…”. Mi vennero i brividi mentre mi accorgevo di sottolineature rosse, nere, blu, un fosforescente tripudio di ipotetici capi d’accusa nei miei confronti. Balbettai: “Ma perché se ne occupa lei?”. Borsellino: “Questo è il bello... il capo vuole che me ne occupi personalmente io... lei non sa che Giovanni e io siamo criticati per essere troppo amici de ‘l’Unità’ e della sinistra?”. Seguì il suo consueto e splendido sorriso sotto i baffi. Abbozzai: “Quindi?”. Borsellino: “Quindi è meglio che per qualche giorno non si faccia vedere in giro... I miei colleghi non sono per niente contenti della sua ultima fatica letteraria…”. Chiesi: “Mi devo preoccupare?”. Borsellino: “Guardi se potessero strozzarla” e questa volta scoppiò a ridere per davvero “lo farebbero volentieri. Che posso dirle? Che chiederò un supplemento di istruttoria... insomma dirò che per leggere bene il suo libro ci vuole tempo... soprattutto perché se questa volta dobbiamo arrestarla dobbiamo arrestarla con tutti i crismi, evitando la brutta figura che la Procura fece quattro anni fa... Speriamo che mentre io continuo a leggere la bufera si calmi...".
Borsellino continuò a leggere, per giorni e giorni, e anche di questo gli sarò eternamente grato. Così fu. La bufera si calmò. Le minacciate querele non arrivarono mai. Ma non vi sembra singolare che Paolo Borsellino, ventun giorni prima della strage di Capaci e settantasette, se il calcolo non è errato, della sua stessa morte, veniva costretto a spendere il suo tempo a fotocopiare, nella speranza che si trovassero gli estremi per arrestare un'altra volta lo stesso giornalista? Conclusione: smettiamola una volta per tutte con la favola dei due giudici un bel giorno assassinati dalla mafia, come se prima di quel giorno ci fossero solo riconoscimenti dei media e applausi istituzionali. Vissero soli. Denigrati e osteggiati. Criticati, ostacolati, o snobbati. Nella più benevola delle ipotesi non capiti o non capiti fino in fondo. Cose vecchie, ormai. Cose d'altri tempi.
E loro, Falcone e Borsellino, per dirla con il titolo di una splendida canzone di Enzo Jannacci, "gente d’altri tempi". Guai se perdessimo l'abitudine di ricordarli almeno il giorno degli anniversari. Soprattutto noi che abbiamo avuto la fortuna, immeritata, di conoscere gente d’altri tempi.
Tratto da: “Quarant'anni di mafia. Storia di una guerra infinita” di Saverio Lodato (Bur/Rizzoli)
Foto di copertina © Shobha
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