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Quello della mafia è un fenomeno criminale che è durato ben oltre il secolo e mezzo. Sono caduti regimi, cambiati governi, ideologie, economie, ma essa esiste e resiste anche grazie a quei rapporti alti con svariati segmenti di Potere. Saverio Lodato, nostro editorialista, in questo articolo, che vi proponiamo in forma integrale, scritto per la rivista Arel fa il punto sulle evoluzioni che si sono succedute dal 1985 ad oggi. Un'analisi per capire, conoscere e comprendere perché, dopo stragi e delitti eccellenti, la mafia non è stata sconfitta.
AMDuemila



Non è vero che se il cane smette di mordere smette di essere un cane
di Saverio Lodato

Esistono ancora riviste come questa, fondata a suo tempo da Nino Andreatta, oggi guidata da Enrico Letta, che riguardo alla mafia, e a tutto ciò che le è sempre ruotato attorno, sembrano riproporre interrogativi del passato, a confronto con l’Italia di oggi, le cui sensibilità di massa sull’argomento sono state progressivamente, ma scientificamente, mutilate.
Il che non va per niente a demerito della rivista, visto che questi interrogativi, decenni e decenni dopo, non sono stati per nulla risolti, semmai volutamente e colpevolmente accantonati.
Riproporre, sollecitare, tornare periodicamente a interrogarsi, - in una parola: ricordare -, sono tutti verbi che appartengono a un esercizio alto di memoria che in Italia sembra essersi perduto.
Gettiamo lì, alla rinfusa: è ancora mafia la mafia che non spara?
Si può dire - e non sembri un gioco di parole - che esiste ancora una mafia quando non spara?
E c’è qualcuno che ne tiene ancora in vita il simulacro, non arrendendosi all’evidenza che lo Stato fece sino in fondo la sua parte acciuffando uno a uno i grandi boss di Cosa Nostra che scatenarono l’escalation di sangue degli anni Ottanta?
Per intenderci: i Michele Greco, i Nitto Santapaola, i Pietro Aglieri, i Totò Riina, i Giovanni Brusca, i Bernardo Provenzano, i Lo Piccolo, padre e figlio, eccetera eccetera eccetera, furono messi in condizione di non nuocere.
Certo. Ne resta sempre un altro a piede libero: Matteo Messina Denaro, latitante da 28 anni, depositario di giganteschi e scabrosi segreti sulla rete di complicità che si dipanò alle spalle della stagione stragista ’92-’93. Ma, prima o poi, anche lui, dicono, è destinato a finire nel sacco della giustizia.
Per ciò, il giorno della civetta ha da passà (per dirla con Sciascia, per dirla con Eduardo); e per molti in Italia il giorno della civetta sarebbe passato da tempo, non fosse altro perché - fortunatamente - non si registrano più stragi, delitti eccellenti, cadaveri gettati alla rinfusa, a centinaia e centinaia, per le strade delle città e dei paesi della Sicilia.
Piombo e sangue, insomma, non abitano più qui. E allora?
Raccontata così, questa storia sarebbe giunta da tempo, e per sempre, su un binario morto, al suo stadio terminale, restando storia appetitosa solo per inguaribili nostalgici o irriducibili dietrologi.
Ma un cane che smette di mordere, solo per questo smette di essere un cane?
Giovanni Falcone ripeteva spesso che la mafia uccideva quando vi era costretta. E quando ogni via “pacifica” si era dimostrata senza esiti tangibili.
Uccideva, insomma, se era ostacolata nei suoi disegni criminosi, intralciata nei suoi affari, avendo, come suo precipuo DNA, l’accumulazione dei capitali illeciti. In altre parole, se il cane non viene disturbato più di tanto, non ha motivi per mordere. Falcone la pensava così, e noi faremmo bene a tenerne conto.
E chiediamoci allora: perché in Sicilia - e lo ricordiamo solo di sfuggita - venne decapitata un’intera classe dirigente?
Perché magistrati, poliziotti, carabinieri, esponenti politici, sacerdoti, giornalisti, imprenditori, cittadini onesti, incrociarono la mafia nel posto sbagliato e nel momento sbagliato: lo snodo internazionale innanzitutto del traffico degli stupefacenti, rappresentato in quegli anni proprio dalla Sicilia e mentre il business era al suo culmine.
Il 1985 - anno in cui venne fondata questa rivista, che oggi torna a interrogarsi su ciò che accadde, per chiedersi se siamo davvero allo scampato pericolo - fu anno di uccisioni e di sangue.
Da una cronologia sterminata di stragi e delitti, grandi e piccoli, in cui il 1985 rappresentò sicuramente un anno “pesante”, ma affatto unico, balzano in evidenza questi nomi.
Quelli di un imprenditore, Roberto Parisi, presidente della società che deteneva l’appalto per l’illuminazione della città di Palermo, vice presidente dell’Associazione Industriali palermitani, presidente della Palermo calcio; di un altro imprenditore, Pietro Patti, che non intendeva pagare mazzette; di un poliziotto della squadra mobile, Beppe Montana, che dava la caccia ai latitanti dell’epoca; di un altro poliziotto, Ninni Cassarà, che di Montana era il dirigente, barbaramente ucciso sotto casa e sotto gli occhi della moglie, insieme al suo accompagnatorepoliziotto, Roberto Antiochia.
E nel bilancio di quel 1985, ci sta anche, per macabro sovrappiù, la strage di Pizzolungo, alla periferia di Trapani: quando esplose un’auto piena di tritolo per uccidere il sostituto procuratore di quella città, Carlo Palermo.
Carlo Palermo si salvò per miracolo, ma vennero ridotti in brandelli Barbara Asta e i suoi due gemelli che viaggiavano casualmente a bordo di un’altra vettura che si trovò in scia con quella del magistrato. Ma non si può smettere di parlare di quell’anno maledetto, l’85, senza ricordare infine il sacrificio di Giancarlo Siani, assassinato a Napoli, il 23 settembre, ad appena 26 anni, perché colpevole delle sue inchieste su camorra e politica, pubblicate dal «Mattino». Un delitto, per certi versi sinergico, di camorra e Cosa Nostra.
Di molte di quelle pagine, ormai lontane, dell’orrore e del sangue, mi ritrovai a essere professionalmente testimone, in qualità di inviato in Sicilia per il quotidiano «L’Unità», giornale che, purtroppo, non esiste più.
A quel tempo, noi eravamo convinti - e con il plurale intendiamo riferirci a tutti i colleghi che, per altre testate, si occuparono dei grandi delitti di Palermo - che quelle fossero soltanto esecuzioni di mafia.
Esecuzioni di Cosa Nostra.
Esecuzioni volute e attuate da un’organizzazione criminale che stava lanciando la sua sfida allo Stato italiano.
Esecuzioni di boss, picciotti e soldati, niente di più, niente di meno.
quarantanni mafia ed 2020Esecuzioni, detta in parole povere, di un’organizzazione che restava perfettamente distinta dalle istituzioni che si trovavano sul lato opposto della barricata.
Credevamo che Stato e Mafia si fronteggiassero, senza esclusione di colpi.
Credevamo che chi faceva sino in fondo il suo dovere avesse le spalle coperte.
Quale errore madornale fu il nostro.
Quale frutto di sottovalutazione di ciò che in realtà stava accadendo.
Quale miopia condizionò le nostre cronache.
Dovremmo riconoscerlo, almeno a posteriori.
Sin da allora, infatti, qualcosa non quadrava.
Come facevano i cosiddetti mafiosi a fare tutto da soli? A non sbagliare mai un colpo? A non incontrare alcuna resistenza in quella cavalcata sanguinaria che già durava da anni e che per altri lunghi e drammatici anni sarebbe continuata sino a trovare la sua Apocalisse nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, e in quelle di Roma, Firenze e Milano, nel biennio ’92-’93?
E poi c’era un altro aspetto che non tornava in quei delitti eccellenti.
Ma davvero magistrati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, avevano avuto, sino all’ultimo istante di vita, la protezione, la copertura, il sostegno incondizionato dei loro corpi di appartenenza e dei loro partiti politici di riferimento?
C’è un filo nero che viene da lontano.
Magistrati come Costa o Terranova o Livatino e Saetta, prefetti come dalla Chiesa, presidenti della Regione siciliana come Mattarella, segretari di partito come La Torre, poliziotti come Giuliano e Montana e Cassarà, carabinieri, come Basile e D’Aleo, giornalisti come De Mauro, Impastato, Francese, Fava o Rostagno, e stiamo elencando senza completezza né rigore cronologico, davano tutti l’impressione di essere falcidiati dai proiettili quando si trovavano ormai al culmine del loro isolamento, nei loro rispettivi ambienti di lavoro.
Quando erano già stati abbondantemente “chiacchierati”.
Quando si erano inconsapevolmente isolati, proprio a causa del rigore e della professionalità che esprimevano nell’esercizio del loro lavoro.
Non davano mai l’impressione di essere il drappello d’avanguardia di eserciti che sarebbero venuti a sostituirli.
Quando si pensa poi alla parabola triste e finale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si capirà facilmente che quelle stragi rappresentarono un fascio di luce che illuminò retrospettivamente tutta la storia degli anni che proprio quelle stragi avevano preceduto.
Fu un lampo accecante.
Nessuno poté più non vedere. Far finta di non sapere e di non capire. Parliamo, naturalmente, di italiani in buona fede, non coinvolti, che non avevano nulla da nascondere. Altri continuarono, e ancora oggi continuano, a darsi da fare per un perenne oscuramento.
Infine: i dossier sottratti dalle casseforti, i diari, le agende rosse scomparsi, i polveroni e i depistaggi investigativi, altro non rappresentarono, con il senno di poi, che i dettagli di una cavalcata criminale che non fu di sola mafia, che non fu solo mafia.
Perché forte, pesante, si avvertiva la mano di un certo Stato, duro a morire.
Fermiamoci qui.
Di esecutori e mandanti mafiosi ne sono stati condannati a caterve in centinaia di processi. E in via definitiva.
Ma la mafia esiste sempre.
Come mai?
Come si spiega, oltre un secolo e mezzo dopo?
Ogni anno decine di blitz delle forze dell’ordine stanno lì a ricordarci che quel “braccio armato” non è stato ancora ridotto all’impotenza. E non più solo in Sicilia, ma in ciascuna regione italiana, nessuna esclusa. Non solo Cosa Nostra è ancora al suo posto, ma ha stretto sodalizio con altre organizzazioni criminali, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, in una gigantesca spartizione del territorio. E si è mostrata abilissima nel tessere trame istituzionali e politiche difficilissime da disboscare.
Ultima annotazione sul punto: sono proprio i rapporti annuali delle forze dell’ordine a squadernare le cifre da capogiro degli interessi delle mafie S.P.A., non mancando di evidenziare quanto si sia estesa in ogni campo dell’economia la galassia degli interessi criminali.
il patto sporco integraleDunque torniamo all’inizio del nostro ragionamento: che il cane abbia smesso di mordere è ragione di sollievo, ci mancherebbe altro. Ma occorrerebbe maggior prudenza nel dare per scontate linee di comportamento che non sono per niente scontate. E la storia, impietosamente, ce lo insegna e ce lo ricorda.
Ed è proprio a questo punto che si spalancano altri interrogativi che forse meriterebbero, in futuro, un numero monografico di questa rivista.
Prendiamo il processo sulla trattativa Stato-Mafia di Palermo - presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille - che si è concluso a Palermo in primo grado, con condanne pesanti per ufficiali dell’Arma dei carabinieri, esponenti politici, boss mafiosi, i quali, circostanza mai accaduta, si ritrovarono alla sbarra tutti insieme.
Cosa è emerso da quel processo durato quasi sette anni?
Uno spaventoso quadro di complicità, documentato, che spiega come mai Cosa Nostra, da oltre un secolo e mezzo, sia diventato un potere criminale perennemente vivo e vegeto. E ciò, indipendentemente dalle singole posizioni degli imputati che sono stati condannati, e che restano in attesa di altre fasi di giudizio.
Cos’è accaduto dopo quella sentenza?
Che la stragrande maggioranza delle forze politiche, sia di governo, sia d’opposizione, sull’argomento ha preferito glissare.
Poteva essere una grande occasione per ridiscutere la storia d’Italia, sin dai tempi di Salvatore Giuliano, del banditismo, e della prima strage di Stato, quella di Portella della Ginestra nel 1947; proprio perché i fili scoperchiati dalle 5000 pagine della sentenza di Palermo affondano le loro radici in un passato davvero remoto.
È in corso il processo di secondo grado, ma non pare stia avendo sorte mediatica differente dal primo.
Il silenzio di giornali e televisioni, opinionisti e anime belle della politologia, tranne rarissime e lodevoli eccezioni, è assordante. Viene curiosamente rotto, però, da autentiche campagne di insulti e veleni contro magistrati come Nino Di Matteo o Nicola Gratteri, Sebastiano Ardita o Giuseppe Lombardo - solo pochi nomi che valgono per tutti -, i quali, da Pubblici ministeri in processi anche similari, si sono guadagnati la fiducia di milioni di italiani.
Una ragione ci sarà.
Noi proviamo a sintetizzarla così: da tempo gli italiani hanno capito che non fu mai solo mafia.
Che Mafia e Stato recitarono sempre più parti in commedia.
Che le “menti raffinatissime”, di cui mi parlò Giovanni Falcone quando andai a trovarlo nella villa dell’Addaura, nell’estate 1989, all’indomani del fallito attentato, non hanno mai smesso di fare il loro lavoro.
Gli italiani hanno anche capito che al Potere, in tantissime delle sue sfaccettature istituzionali e mediatiche, andrebbe bene che la vecchia favoletta funzionasse ancora.
Se così non fosse, quei magistrati che, nonostante tutto, cercano la verità, anche al possibile prezzo della loro vita, sarebbero osannati e pubblicamente ringraziati per il loro lavoro.
Mentre invece - guarda caso - vengono quotidianamente messi alla gogna.
Di buono c’è che gli italiani non sembrano aver dimenticato quel fascio di luce accecante rappresentato dalle stragi del '92-'93.

PDF Per gentile concessione di "AREL - La rivista 1985-2020"

Foto originale © Paolo Bassani

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La rubrica di Saverio Lodato

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