Una sera a Palermo, tanti anni fa, alla vigilia della sentenza del primo processo per mafia a Giulio Andreotti, sette volte presidente del consiglio, uomo politico italiano più noto nel mondo, proverbiale per battute un po’ ciniche, un po’ macabre, spesso banali, che tanto piacevano ai nostri maitre à penser, sia di destra sia di sinistra, mi ritrovai a cena con Pino Scaccia.
Era l’inviato di punta della Rai che aveva seguito l'interminabile dibattimento che aveva spaccato l’Italia fra innocentisti e colpevolisti.
Polemiche feroci, la gran cassa dell’orchestrona garantista che ebbe proprio a tutela di Andreotti il suo battesimo del fuoco, la gogna mediatica per i pubblici ministeri dell’epoca, che si erano permessi di portare alla sbarra uno statista di tal fatta. Qualcuno ricorderà la grande pietra dello scandalo: il bacio fra Andreotti e Totò Riina, attorno al quale finirono per ruotare tutte le polemiche.
Per sintetizzare quel clima, basterà ricordare ciò che scrisse una giornalista (che poi ha fatto tanta carriera) su un grande magazine: “Ma come è pensabile che un uomo che nella sua vita ha indossato solo pullover di cachemire possa avere abbracciato e baciato il capo di Cosa Nostra?”. Spinta nel suo ragionamento da una logica sartoriale che, ancora oggi, mi sfugge.
Ma torniamo a quella cena con Pino Scaccia.
Entrambi conoscevamo il processo, lui per la Rai, io per L’Unità, quotidiano per il quale scrivevo. A cena fummo d’accordo su tutto. Sapevamo che le accuse di tanti pentiti e i riscontri contro Andreotti trovati dagli investigatori non lasciavano adito a ipotesi innocentiste: per due volte Andreotti era venuto in Sicilia per incontrare i vertici di Cosa Nostra, alla vigilia e all’indomani dell’uccisione del presidente della regione siciliana, il democristiano Piersanti Mattarella (la Cassazione poi avrebbe confermato la veridicità di quei due summit).
Ma se con Pino fummo d’accordo su tutto, non lo fummo per niente sull’esito del processo.
Io mi sentivo sicuro che Andreotti sarebbe stato condannato per mafia. Lui, invece, sosteneva che, in qualche modo, l’avrebbe fatta franca.
L’indomani la sentenza gli diede ragione:
il Tribunale di Palermo scagionò Giulio Andreotti dall’associazione mafiosa, ricorrendo all’articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale, che aveva di fatto sostituito la vecchia “insufficienza di prove”.
Mi venne spontaneo chiedergli: “Ma se ieri sera eravamo d’accordo su tutto, perché poi ti sei impuntato che non l’avrebbero condannato?”.
Pino mi rispose sorridendo: “Perché facendo il nostro mestiere da tempo ho smesso di credere alla Befana”.
Grande lezione la sua.
Foto originale © Paolo Bassani
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La rubrica di Saverio Lodato

Pino Scaccia non credeva alla Befana
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