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Da un lato la necessità di far sentire la propria vicinanza al popolo italiano per incoraggiarlo in questo difficile momento d'emergenza sanitaria. Dall'altro il monito lanciato all'Unione Europea che solo in parte sembra aver compreso la delicatezza del momento e la gravità della situazione. Così Sergio Mattarella è intervenuto ieri pomeriggio in un discorso di quasi sette minuti e mezzo.
C'è bisogno di responsabilità e solidarietà. E il Capo dello Stato ha mostrato il volto della semplicità quando si è fermato a metà discorso ("Oh Signore, non riesco a leggere"), per poi scusarsi con l'operatore ("Mi dispiace, mai successo"), o giustificarsi col Portavoce che gli faceva notare un ciuffo fuori posto ("Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanch'io..."). Quei fuorionda, inviati per sbaglio a detta del Quirinale, hanno reso più vicino il Presidente Mattarella a tutti gli italiani.
Ancor di più quando, dando manforte all'intervento del Premier Conte nei giorni precedenti, ha lanciato un messaggio all'Unione Europea: "Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse".
Di seguito riproponiamo un articolo del nostro editorialista, Saverio Lodato, che permette ai nostri lettori di comprendere meglio la storia dell'attuale Capo dello Stato.
Giorgio Bongiovanni



Il Presidente
Ho conosciuto Sergio Mattarella
di Saverio Lodato
Una parabola limpida durata oltre quarant’anni che si conclude oggi con la nomina a Capo dello Stato e con una schiacciante maggioranza che però, ed è un bene, non è maggioranza bulgara, a riprova del fatto che il nome era forte, convincente, difficilmente discutibile. Ma anche, e questo non è un male, non era un nome buono per tutte le stagioni, quindi condivisibile da tutti. Qualcuno, alla vigilia, aveva voluto evidenziare scenari remoti, parentele imbarazzanti, contesti siciliani arcaici, perché è giusto che tutto si sappia e neanche la più piccola ombra deve offuscare l’illibatezza della moglie di Cesare. Corretto averlo fatto, per il bene dell’informazione, ma, tirate le somme, è rimasto il dato che il nome di Sergio Mattarella non era offuscabile, non aveva le ali zavorrate dal piombo dei sospetti, rispecchiava al contrario una vicenda umana e politica limpida, come dicevamo all’inizio. I commentatori che oggi tratteggiano il ritratto del dodicesimo presidente della Repubblica italiana quando, procedendo a ritroso, si imbattono negli albori della carriera politica di questo che era allora un giovane dirigente democristiano intenzionato a farsi largo nella fossa dei leoni dello scudocrociato andreottiano, rappresentato da big quali Salvo Lima, Vito Ciancimino, Luigi Gioia, Nino Gullotti, gli imprenditori Nino e Ignazio Salvo, il conte Arturo Cassina, i cavalieri del lavoro di Catania, i Graci, i Rendo, i Costanzo, i Finocchiaro, gente che teneva tra i denti il coltello delle preferenze e degli appalti, i commentatori, dicevamo, sembra che siano portati istintivamente a sorvolare.
Si sa che la materia siciliana è scabrosa per definizione, a volte enigmatica a volte sfuggente a volte inesplicabile. Ma è proprio da quella fossa dei leoni in cui si aggirava un giovane democristiano con l’andatura di un agnello apparentemente indifeso, che si deve ripartire se si vuole capire come abbia fatto quell’agnello a farsi largo tanto da diventare oggi il capo dello Stato.
Scrivo questo brevi considerazioni con un pizzico di emozione, dovuta al fatto di avere conosciuto Sergio Mattarella oltre quarant’anni fa, di averci lavorato politicamente insieme - e dirò perché - di averne sondato tempra e carattere, in anni davvero lontani che annunciavano, ma questo lo si sarebbe visto dopo, quell’inferno mafioso siciliano scandito dalle uccisioni di Cesare Terranova, che tornava a fare il giudice a Palermo dopo la parentesi della commissione antimafia, di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana, fratello di Sergio; di Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo; di Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, eccetera, eccetera, eccetera.
Nel 1976 avevo 25 anni, non facevo ancora il cronista. Ero iscritto al PCI, del quale ero diventato giovane dirigente dopo una lunga parentesi nella federazione giovanile, e fu Mario Barcellona, dirigente comunista molto più avanti negli anni e più esperto di me, deputato all’assemblea regionale, a volermi indicare, per subentrare al posto suo, quale consigliere di amministrazione dell’Opera Universitaria di Palermo - l’ente che si occupava della gestione del diritto allo studio (presalario, stanze, mensa per gli aiuti agli studenti fuori sede che alloggiavano al pensionato San Saverio) -, in quota Pci. Ricordo, fra gli altri, un giovane Leoluca Orlando, che negli anni ha mantenuto uno strettissimo rapporto con Mattarella, in rappresentanza del personale docente dell’Università; Francesco Tornatore, in rappresentanza degli studenti universitari; il professore Antonello Laconi, radiologo, in rappresentanza dei cattedratici; un professore di ingegneria, non ne rammento più il nome, in rappresentanza dei socialisti, l’avvocato Nino Todaro, in rappresentanza della DC ... E dovrebbero essere tutti, se la memoria non mi sta facendo scherzi.
Presidente dell’Opera Universitaria, era Sergio Mattarella.
Come erano le riunioni di quel consiglio di amministrazione? Ne ho serbato ricordo perché erano estenuanti, sino allo sfinimento, proprio a causa della gestione Mattarella. Era uomo zelante e puntiglioso, con innegabili doti di amministratore, sostenuto da studi giuridici ferrei, attentissimo alle offerte dei venditori dei servizi per l’Opera universitaria, alle cifre, e, cosa che non guastava, alle provenienze sociali e familiari dei fornitori stessi che, qualche volta, erano in odor di mafia, se non addirittura mafiosi essi stessi. Va detto che in oltre un anno di attività, grazie alla gestione oculata di Mattarella, neanche una delle centinaia delle delibere che approvammo diede seguito a conseguenze giudiziarie. Eppure, a un certo punto, i socialisti decisero di dare l’assalto all’Opera universitaria, rivendicandone la direzione.
Fu così che un pomeriggio ricevetti una telefonata di Mattarella che chiedeva di incontrami. Venne a trovarmi a casa e con estrema tranquillità mi annunciò che, di lì a poco, si sarebbe dimesso perché non intenzionato a finir dentro il pentolone di polemiche che scaturivano dalle ambizioni di potere di qualcuno. Venne a dirlo a me perché - pur essendo io comunista e lui democristiano - avevamo lavorato bene insieme in un rapporto di vicendevole fiducia. Trascorremmo insieme più di un’ora, nel tentativo, da parte mia, di convincerlo a ignorare il polverone che lo riguardava e a soprassedere rispetto alle dimissioni. Non ci fu verso. Era venuto a trovarmi per comunicarmi una decisione presa, non per discuterla con me. Poi, ci perdemmo di vista.
Nel giorno nero dell’Epifania del 1980 quando arrivai, insieme al direttore de L’Ora, Nicola Cattedra, giornale in cui avevo iniziato il mio apprendistato giornalistico, in via Libertà sul luogo in cui suo fratello Piersanti era stato massacrato, lui non c’era già più.
Lo rividi il 17 aprile del 1982 in occasione di un'intervista all’Unità - giornale nel quale adesso lavoravo - (pubblicata il 18 aprile), in cui Mattarella si schierò apertamente contro l’installazione della base missilistica Cruise a Comiso. Fu un'intervista che ebbe una forte eco. Per nulla gradita, come fu, dai plenipotenziari Dc di allora, che invece erano favorevoli alla base.
Si apriva con queste parole: "Sarebbe triste, molto triste, installare ordigni nucleari e simboli di guerra, in una zona dove fino a oggi la natura con il contributo dell’intelligenza e della passione degli uomini, ha potuto esprimersi senza costrizioni". E proseguiva: "I partiti non hanno ancora pienamente dato risposta a quest’ansia di pace".
Pio La Torre, che in quel momento era segretario dei comunisti siciliani, capì immediatamente il forte segnale che arrivava da quella parte della Dc siciliana finalmente "pulita" e non compromessa con il sistema di potere politico mafioso. C’era stata, appena due settimane prima, la manifestazione dei "centomila" a Comiso, voluta proprio da La Torre, mentre il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, ricorreva a versetti della Bibbia per dire il no della Chiesa siciliana ai missili Cruise e lo stesso Orlando, poco prima di Mattarella, mi aveva rilasciato un’altra intervista che aveva ulteriormente rafforzato la tessitura di quel vasto sistema di alleanze che ormai non risparmiava più nessun partito.
Poi, anche La Torre, e forse proprio per il suo impegno pacifista, venne stroncato dal piombo mafioso ispirato da mandanti internazionali pagando, anche lui, come Piersanti Mattarella, il bilancio di un’intera esistenza politica.
Concludendo. Non è vero che Sergio Mattarella abbia attraversato "in silenzio" quegli anni siciliani di tragedia. Fece quello che a suo giudizio andava fatto. Disse poche parole, ma pesanti come pietre. E non è un caso che fu uno dei sostenitori più determinati di quella primavera di Palermo che ebbe in Orlando il suo sindaco simbolo. L’agnello aveva un cuore da leone, questa è la verità. E in pochi l’avevano capito.
Poi va detto, e da giornalista ho trovato questa sua scelta letteralmente meravigliosa, non ha mai speculato o cavalcato l’inevitabile onda emotiva che scaturì dal giorno nero dell’Epifania 1980. Insomma: non si fregiò mai del titolo di "fratello" di Piersanti per cercare scorciatoie politiche e sull’argomento non rilasciò mai interviste o dichiarazioni a effetto.
Ci sarà modo di tornare sulle convergenze politiche che hanno portato alla sua designazione. Oggi volevamo soltanto spiegare l’aforisma che abbiamo pubblicato su ANTIMAFIADuemila la sera della vigilia della sua elezione: "E’ altamente improbabile che gli italiani un giorno dovranno vergognarsi di un Capo dello Stato che si chiama Sergio Mattarella". Ne siamo convinti. L’augurio è che i big di partito che lo hanno eletto sappiano davvero chi hanno eletto. Il resto si vedrà.
(Pubblicato il 31 gennaio 2015, in occasione dell'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato)

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???? La rubrica di Saverio Lodato

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