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di Saverio Lodato
Qualche giorno fa, proprio qui, ci chiedevamo dove collocare la figura del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro; se alla base o in cima alla piramide che vede - a prestar fede alle indiscrezioni giornalistiche sull'inchiesta delle Procure di Palermo e Roma, sin qui non seriamente smentite da nessuno - nel sottosegretario Armando Siri, nell’imprenditore Paolo Arata, nel già imputato per mafia, Vito Nicastri (considerato dagli inquirenti prestanome di Messina Denaro), altrettanti gradini tutti comunicanti fra loro. Insomma.
Se questa catena di Sant’Antonio (e Sant’Antonio non se la prenda, ché tratterebbesi, in questo caso, di catena mafiosa e criminale) fosse vera, e provata - al punto in cui sono giunte le cose, o in cui si sono fermate, che è un dire più esatto - , viene da concludere che Messina Denaro sta in cima, sta in alto, e da lì - almeno per il momento - non lo schioda nessuno.
Tutto quanto sta accadendo, cioè nulla, fa - evidentemente - a pugni con la logica. Così è, comunque la si pensi sulle eventuali dimissioni del Siri.
Innanzitutto, fa a pugni con la logica elettorale.
Per Matteo Salvini non deve essere piacevole essersi incapronito in una difesa a oltranza di un sottosegretario che era già partito male (condanna patteggiata per bancarotta fraudolenta a un anno e otto mesi) anche a prescindere dal punto di arrivo della sua carriera politica. E in quel caso - e Salvini dovrebbe riconoscerlo - il tanto declamato “giudizio definitivo” della magistratura c'è già stato: Siri è un bancarottiere fraudolento.
Salvini, che è ragazzo sveglio, lo capisce benissimo. Eppure preferisce mostrare qualche difficoltà di comprendonio. Già. Perché?
Tutta la Lega ne sta uscendo maluccio, simile a un Pinocchio che sulla questione morale venisse sbugiardato a reti unificate e per giorni e giorni di fila. Quanto deve allungarsi il naso della Lega, tenendo anche conto che siamo in piena campagna elettorale, prima di correre ai ripari?
Invece, a dispetto di tutto, la Lega non solo tiene la posizione (che rischia da imbarazzante di farsi scabrosa, a non voler dire sconcia) ma affida alle parole di Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del consiglio, il compito di tenere in piedi, sull’argomento, il Salvini claudicante. Dicendo, anche lui: Siri non si tocca.
E Siri dal canto suo, e questo si capisce meglio, si mostra tetragono e gongolante nel restare incistato nella sua poltrona.
Ma la domanda che ora ci assale è questa: Giorgetti parla davvero solo per puntellare Salvini? O parla anche pro domo sua, magari perché conosce meglio questo argomento, rispetto a un Salvini che si troverebbe imbarazzato ad andare fuori tema, evocando, per il “caso Siri” - si fa solo per dire una spiritosaggine - la castrazione chimica? Insomma: chi è più ferrato sul “caso Siri”, Salvini o Giorgetti?
E sarà poi vero che il tempo porta consiglio?
Luigi Di Maio continua imperterrito a sfogliare la sua margherita. E scuote il capo: no, oggi Siri non si dimette. Forse domani, chissà.
Giuseppe Conte, il premier che negli ultimi giorni è andato e tornato da Cina, Tunisia e Palazzo Chigi almeno un paio di volte, quel dossier se lo ritrova sempre in bella evidenza sulla scrivania. Non c’è verso di archiviarlo.
In conclusione.
Voi dove lo collochereste, in un gioco di salotto, il Matteo Messina Denaro?
In cima o all’ultimo gradino della piramide? Qualche indizio per rispondere ve lo abbiamo fornito. O no?


POST SCRIPTUM
Parole chiare, condivisibilissime, financo coraggiose (le trovate qui accanto).
Giuseppe Conte, il premier di questo governo, rende pubblica la sua decisione sofferta, ma univoca, sul “caso Siri”. Confermando in noi, per quanto possa valere, il giudizio che su di lui esprimemmo all’epoca del suo discorso di insediamento. Sulla mafia - scrivemmo infatti - pronunciò parole “pesanti come pietre”. Sono trascorsi undici mesi da allora.
E ora la sua odierna decisione di rimuovere Armando Siri dal ruolo di sottosegretario, consegnandola alla prossima riunione del consiglio dei ministri, taglia in radice - e definitivamente - le scelte di parte di chi intendeva alimentare un caso elettorale permanente. Non è un caso che Conte si sia rivolto, scandendo concetti tanto alti quanto improntati al buon senso, ai due duellanti. Starà a Matteo Salvini, starà a Luigi Di Maio, farsi una ragione del fatto che entrambi sono i “vice” di un presidente del consiglio che si chiama Giuseppe Conte.
Conte, infatti, e questo gli fa onore, decide - e a che decisione era chiamato - tenendo presenti il giustizialismo, il garantismo, l’affetto umano, il merito - si: il merito di una questione scivolosa e ingarbugliata - dell’intera faccenda. E il tutto, badate bene, dopo avere incontrato a quattr’occhi il diretto interessato, che, alla fine, sarebbe diventato il diretto destinatario di un provvedimento di allontanamento. Non un giudizio di precolpevolezza, non un'anticipazione di sentenza. Anche questo Conte lo ha rimarcato.

Ma la semplice constatazione che Siri si era dato da fare per favorire gli interessi economici di una “parte” sola, è diventato il punto dirimente.
Il che - per quanto possa suonare strano nell'Italia in cui siamo ridotti - non è accettabile. E Conte non ha voluto accettarlo. Gli italiani, indipendentemente da come la pensano, gliene daranno atto.
(Aggiornamento delle ore 20.31)

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La rubrica di Saverio Lodato

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