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lodato saverio reggio emilia c acfbdi Saverio Lodato
Non tutti sanno che quella volta furono i cuochi ad accogliere Giovanni Falcone. Proprio cosi: i cuochi che preparavano i tortellini, le lasagne al forno e lo gnocco fritto, e che per l’occasione, come a un cenno convenuto, abbandonarono le loro postazioni in cucina. Ed erano infatti tutti rigorosamente in grembiule bianco, e qualcuno aveva persino il cappello dello chef - quello che i francesi chiamano la “toque blanche”-, ad applaudirlo sulla soglia dell’ingresso della Festa Nazionale dell’“Unità” di Modena, riservato esclusivamente alle autorità che erano state invitate.
Era il 16 settembre 1990, quasi ventinove anni fa, quando Giovanni Falcone, decise di accogliere l’invito ad andare a parlare di mafia, insieme ad altri oratori, proprio a Modena, in uno dei tanti cuori dell’ Emilia Rossa di allora. E il pretesto fu la pubblicazione, da parte mia, del libro “Dieci anni di mafia”, edito dalla Rizzoli (oggi, purtroppo, persino il titolo si è fatto vecchio: “Quarant’anni di mafia”) che lui volle presentare.
Giovanni Falcone era uno che non si tirava indietro. Né si faceva minimamente influenzare da ragioni di opportunità politica se si presentava l’occasione di spiegare in pubblico cosa fosse la mafia, come andava combattuta, e ciò che in quegli anni stava accadendo in Sicilia. Infatti erano già stati assassinati, per dire solo di qualcuno, Carlo Alberto dalla Chiesa e Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella e Gaetano Costa e Pio La Torre e Rosario di Salvo e Boris Giuliano e Beppe Montana e Ninni Cassarà e Emanuele Basile... Eppure, nonostante una simile impressionante mattanza, la stragrande maggioranza degli italiani era ancora convinta che la mafia fosse una questione siciliana e di siciliani, una “piccola” metastasi regionale che non sfiorava, né mai avrebbe sfiorato, il tessuto sano dell’Italia di allora. Ecco perché Falcone accettò quell’invito .
Lo accettò perché sapeva benissimo che quella “piccola” metastasi, se non presa adeguatamente in tempo, avrebbe finito col fare danni incalcolabili, e questa volta da Capo Passero sino alle Alpi. Poi, dopo la strage di Capaci, sarebbero venuti i cialtroni di regime - ma questa è un’altra storia - a spiegarci che il magistrato non dovrebbe farsi vedere e prendere la parola nei luoghi dove si fa politica, perché ne andrebbe della sua imparzialità. Cazzate dette a bella posta. Sappiamo bene che le dicono solo perché a loro stanno a cuore, più di ogni altro valore, i potenti e i mafiosi di qualsiasi stagione. Cialtroni, appunto.
Qualche giorno fa, a Reggio Emilia, a pochi chilometri da Modena, sono stato invitato a parlare di mafia dai ragazzi universitari dell’associazione “Cortocircuito” (ce ne fossero tante, come questa, in giro per l’Italia), insieme al procuratore Francesco Del Bene e a Nino Di Matteo (che all’ultimo momento per un grave lutto familiare si è trovato nell’impossibilità di essere presente), nella storica e prestigiosa “Sala Del Tricolore”. Ed entrambi già pubblici ministeri, insieme a Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, nel processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia.
Ed è proprio lì, in un altro dei cuori rossi dell’Emilia Rossa di una volta, che mi è capitato di ricordare di quando Falcone andò a Modena.
Un invito, per me, originario di Reggio Emilia, e ci tengo a dirlo, emozionantissimo, pur se in quella città vissi appena un anno.
E tutto mi sarei aspettato, ventinove anni dopo Modena, tranne che andare a constatare di persona quanto fosse esatta la preoccupazione di Falcone circa la “piccola metastasi” che, se non presa in tempo, avrebbe fatto danni incalcolabili.
La mafia ormai c’è anche a Reggio Emilia. Ben insediata, ben pasciuta, tracotante e minacciosa. E c’è sotto forma di 'Ndrangheta, esportata proprio lì, dove c’è ricchezza, altissima qualità della vita, ghiotto Eldorado a portata di mano dei criminali, da un solo paese calabrese: Cutro, in provincia di Crotone. E al quale comune, e ci sembra circostanza curiosa, una precedente amministrazione, sindaco Graziano Delrio, pensò bene di dedicare una via cittadina: “Viale Città di Cutro”, per l’appunto. Non tutti i gemellaggi nascono sempre col buco, verrebbe da dire.
Il che non significa certo che l’intera colonia cutrese che si è costituita come enclave, fin dentro Reggio Emilia, si identifichi tout court con la ndrangheta. Ci mancherebbe. Ma, purtroppo, è altrettanto certo che la maggioranza di quel paio di centinaia di imputati condannati a pesantissime pene nel “Processo Aemilia” è proprio da Cutro che proviene.
In altre parole, i reggiani si sono ritrovati il mostro a casa loro, senza che ne avessero colto in tempo le avvisaglie.
“E la mafia è anche in Val d’Aosta”, ha osservato l’altra sera il procuratore Del Bene, nel suo intervento, a voler rimarcare come il fenomeno non debba mai essere sottovalutato. Perché poi, estirparlo, rischia di diventare complicato.
Tanto più che la sentenza del “Processo Aemilia” racconta, in piccolo, di quelle stesse complicità che sono emerse nel processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia: 'ndranghetisti, infatti, condannati insieme a imprenditori reggiani, funzionari di polizia, persino giornalisti: ché di patti sporchi e scellerati ormai è piena l’Italia.
Ora, a Maggio, si voterà per la nuova amministrazione comunale di Reggio Emilia. E il tema divide, ma sarebbe più esatto dire lacera, la popolazione locale. Dalla consapevolezza che non si possa più far finta di niente, è nata l’iniziativa, cui hanno aderito in tantissimi, nella Sala del Tricolore, attuale amministrazione comunale PD inclusa.
Lo ha spiegato benissimo un ragazzo di “Cortocircuito”, di 25 anni, Elia Minari, giornalista con la schiena dritta e autore di puntigliosi reportage on line che hanno rappresentato la scintilla dalla quale hanno preso il via le indagini che poi si sono tradotte in 119 condanne. E autore di un libro dove questi fatti vengono squadernati e che si intitola: “Guardare la mafia negli occhi”, per Rizzoli.
C’è di buono, per fortuna, che adesso, dietro Elia Minari, testimone suo malgrado di quanto stava accadendo, si muove quella Reggio Emilia per bene che non ritiene che, siccome a Reggio Emilia il processo è finito, a Reggio Emilia è finita la ‘Ndrangheta. Come qualcuno, invece, si ostinerebbe a voler credere.
Errare può essere umano, perseverare è un altro conto.

Foto © ACFB

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La rubrica di Saverio Lodato

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