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lodato saverio cprof c paolo bassani 2018di Saverio Lodato
Bisognerebbe, alla luce delle sentenze di Palermo e Caltanissetta, rimettere in discussione, con l’intenzione di estirparla radicalmente, la mala idea del garantismo all’italiana.
Intendiamoci bene, non il garantismo in quanto tale.
Il diritto cioè dell'imputato a potersi difendere dal e dentro il processo.
Il diritto dell’imputato a vedere esaminato senza pregiudizio alcuno dalla corte, chiamata a giudicarlo, il suo punto di vista, la sua versione dei fatti, gli argomenti a sua discolpa.
Il diritto, che per altro è scolpito in Costituzione, al “processo giusto”, con formula persino tautologica dal momento che quell'aggettivo - “giusto” - nulla toglie e nulla aggiunge al significato della parola “processo”. Che nient’altro significa che “procedere”, “avanzare”, come insieme di fenomeni, fra loro interconnessi e ricostruiti. Al termine dei quali, arriverà, prima o poi, una sentenza.
Comunque sia, in Italia, il processo è previsto “giusto”, anche per legge, e va benissimo così.
Tutt’altra cosa, invece, è la mala idea del garantismo. Parola di conio antico, e nobilissimo. Ma che solo di recente, fra la fine degli anni '80 e '90, per essere esatti, divenne di uso e abuso comune, quando le indagini di Mafiopoli e Tangentopoli iniziarono a spalancare per la prima volta le porte delle patrie galere a legioni di condannati con coppola e colletto bianco.
E'allora che il “garantismo” diventa arma contundente. Diventa scimitarra regolatrice di tutti quei processi che il Potere non ammetteva fossero celebrati. Né vorrebbe che fossero celebrati ancora oggi, sia pure incontrando, negli ultimi tempi, ostacoli nuovi che lasciano ben sperare le persone per bene.
Il garantismo è diventato così una mala idea all’italiana.
Garantismo: per mettere alla gogna i rappresentanti dell'accusa.
Garantismo: per torchiare le corti che emettevano sentenze non gradite.
Garantismo: per beatificare le corti che invece assolvevano, archiviavano, prescrivevano.
Garantismo equo e solidale, verrebbe da dire: con il duplice scopo di stoppare le carriere dei magistrati invisi, favorire quelle dei magistrati ritenuti in sintonia.
E vale, e valeva, per gli investigatori, quelli che si muovono temporalmente prima dei magistrati e dei giudici, intendiamo i poliziotti, i carabinieri, gli ufficiali della guardia di finanza, anche loro chiamati a superare la prova dell’“esame garantista”.
Ma torniamo a Mafiopoli e Tangentopoli. Se anche i pesci piccoli, i ladri di galline, come li chiamavano i grandi teorici del meridionalismo italiano d’inizio e metà secolo, i poveracci incapaci di pagarsi le difese, persino i delinquenti che agiscono in proprio, avessero avuto in questi decenni una sola parola di conforto dai “garantisti” di ultimissima generazione, ce ne saremmo fatta una ragione. Ma ciò - e chi legge lo sa benissimo - non è mai accaduto.
Di contro, a cosa abbiamo assistito?
A difese garantiste, con la scimitarra regolatrice di cui sopra, di Bettino Craxi e Giulio Andreotti; di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri; di Gaetano Badalamenti e Michele Greco e Vittorio Mangano; di Totò Cuffaro e di centinaia di politici come lui sparsi per tutta l’Italia; di Bruno Contrada e di Mario Mori, a ricordare solo gli esponenti apicali di certi servizi segreti all’italiana.
Persone eccellenti, ca va sans dire.
Tutti uomini politici, capi di Stato, capi di Cosa Nostra, capi delle intelligence all’italiana. Tutti di peso, di spicco e di spessore. E le cui vite, mirabilmente, inspiegabilmente, si intrecciarono per trenta quarant’anni in curiose promiscuità di interessi, condotte politiche e criminali - a ciascun “medaglione”, di quelli indicati, toccava la sua pena - lasciando, alla fine, una pesantissima impronta (o “zampata”, potremmo osare) sulla storia d’Italia.
Va detto, a questo punto, che tutte le persone eccellenti, appena elencate, alla fine furono tutte condannate, anche se qualcuna non ancora in via definitiva. Il che - quanto meno statisticamente - dovrebbe far riflettere i garantisti a tutto campo, senza se e senza ma.
Se poi, sull'altro piatto della bilancia, mettiamo i nomi di chi, in questi trenta quarant’anni, è finito alla gogna, avvertiamo una vertiginosa sproporzione.
Prendiamo a caso: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e prima di loro Gaetano Costa e Rocco Chinnici e Cesare Terranova e Pio La Torre, e Piersanti Mattarella, e Ninni Cassarà, e Beppe Montana, e Emanuele Basile, tutti adeguatamente schizzati di fango prima di essere fisicamente eliminati, e l’elenco completo dei loro nomi sarebbe dieci volte tanto.
Prendiamo ancora a caso: calunnie a tempesta per Gian Carlo Caselli o Nino Di Matteo, Antonio Ingroia o Roberto Scarpinato, tutti periodicamente incolpati per scarsa sensibilità garantista, tutti con il vizio d’origine di essere pubblici ministeri dediti alla riscrittura faziosa e colpevolista della Storia d’Italia, che invece - come è noto a tutti - è così bella e così innocente.
Né qui si vuole spiegare perché l’abbiamo definita “vertiginosa sproporzione”, in quanto faremmo offesa ai lettori che sanno benissimo quale è stato, nel bene e nel male, il potere evocativo di ciascuno dei nomi che abbiamo scritto.
Infine.
Se agli interpreti del garantismo all’italiana, qualche processo di quelli istruiti in questi trenta quarant’anni, fosse stato di loro gradimento, e qualcun altro no, avremmo davvero poco da obbiettare.
Ma così non è.
Da Giuliano Ferrara a Vittorio Sgarbi, da Eugenio Scalfari a Lino Jannuzzi a Giuseppe Sottile a Massimo Bordin (e anche questo è elenco che potrebbe essere dieci volte tanto), non si sono mai registrate eccezioni, trovandosi tutti uniti nel declinare all’infinito la giaculatoria dei processi che “non si dovevano fare”. E che “non si devono fare”.
Pazienza.
Anche a noi piacerebbe vivere in un modo senza indagini, senza processi, senza sentenze, senza condannati. E ci piacerebbe anche vivere in un modo senza mascalzoni.

Foto © Paolo Bassani

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La rubrica di Saverio Lodato

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