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Totò Riina
affondava la lama nel burro. Era contento, rideva e si fregava le mani per la piega che avevano preso gli eventi.
Cosa Nostra gli andava dietro perché ormai aveva solo da guadagnare, con la recrudescenza dell’ escalation criminale.
Certi uomini politici, che avevano tutto da temere, tutto da perdere, vita inclusa, essendo già stati, in passato, troppo vicini, troppo permeabili a quel mondo criminale, scommettevano sul buon esito dei colloqui, di quei pourparler tutt’altro che candidi, innocenti, disinteressati. Colloqui che, con ogni probabilità, essi stessi avevano sollecitato e favorito.
Marcello Dell’Utri riferiva tutto a Silvio Berlusconi.
Dall’altra parte, Vittorio Mangano, console onorario di Cosa Nostra ad Arcore, ancor prima che stalliere, riferiva tutto a boss, soldati e semplici picciotti.
Nel frattempo, Dell’Utri, affiancato dal giornalista Lino Jannuzzi, si ritrovava in tv a tessere le lodi del palafreniere Mangano, ingiustamente “calunniato” dai forcaioli dell’antimafia.
E per un lunghissimo periodo, il cavaliere, alla cui staffa camminava il mafioso Mangano, metteva mano al portafoglio, perché il profumo dei soldi riuscisse, almeno in parte, a mitigare il lezzo del compromesso.
Nasceva così la Seconda Repubblica d’Italia, un po’ a suon di bombe, un po’ a suon di danaro contante.
Gli alti vertici del Ros, il riferimento è agli ufficiali dei carabinieri pesantemente condannati al processo di Palermo, erano stati ridotti al ruolo di postini, per un umiliante porta e riporta fra uno Stato fellone e un insaziabile potere criminale che a quello Stato voleva rompere le corna.
E la Trattativa, quella che fece a pezzi Paolo Borsellino e cinque fra uomini e donne della sua scorta, fu nascosta, negata, dimenticata, per più di quindici anni, da altissimi uomini delle istituzioni che si trovavano nei gangli giusti.
Erano uomini e donne altissimi, quanto a scranni di comando, quelli che dalle oltre 5000 pagine firmate dal presidente della corte d’assise, Alfredo Montalto, e dalla giudice a latere Stefania Brambille, escono ora come figurine piccole, modeste, inadeguate a ciò che stava accadendo in quegli anni.
Visto con il senno di poi, è tutto chiarissimo. Paolo Borsellino accettò consapevolmente di morire perché a lui, quello Stato fellone, faceva andare il sangue alla testa.
Paolo Borsellino fu colpito alle spalle, ma con la coda dell’occhio fece in tempo a vedere le tremende dimensioni di ciò che si muoveva alle sue spalle.
Paolo Borsellino aveva capito il Grande Gioco.
Quello stesso Grande Gioco che, 57 giorni prima di lui, aveva già stritolato il suo amico d’infanzia e di sempre, poi diventato persino collega nella lotta alla mafia (ma quale lotta alla mafia? Fatta da chi? Con il sostegno di chi?), Giovanni Falcone.
Visto con il senno di poi, tutto si spiega. Avendoli discretamente conosciuti entrambi, (ma allora, non dopo che erano morti), quando erano vivi, lavoravano, si muovevano in un mortale e pestifero isolamento, di colleghi, esponenti politici e grande stampa, mi sento di poter dire che non morirono né da incoscienti, né da inconsapevoli.
Visto con il senso di allora - è questo che vogliamo dire - a entrambi, era tutto chiarissimo. Sin da allora, appunto.
Falcone denunciava l’esistenza di “menti raffinatissime”.
Borsellino avvertiva “il tanfo del compromesso”.
Furono questi i sassolini che, come Pollicino, il dottor Falcone e il dottor Borsellino, altro che “Giovanni e Paolo”, vollero lasciare lungo una strada che sapevano benissimo non avrebbe avuto un ritorno.
Si è fatto di tutto, in quest’ultimo quarto di secolo, per far scomparire quei due semplici “sassolini”.
Si poteva parlare di tutto, anche nella gran cassa dei media, tranne che di quei due “sassolini” indigesti, e chissà poi perché. Ma ora si capisce.
Si poteva persino inventare che Borsellino era caduto a causa di una non meglio identificata inchiesta su “mafia e appalti”, invenzione che oggi la corte d’assise, in sede di motivazioni, spazza via come interessato depistaggio da parte di chi sapeva come effettivamente erano andate le cose. E invece, chi fosse cultore della materia, non ha che da andare in archivio, per verificare quali testate giornalistiche lanciarono l’ennesima “polpetta” avvelenata di quegli anni.
Recriminare non serve a nulla.
Dimenticavamo: Borsellino fu ucciso prima del tempo, e proprio “a causa” della trattativa.
Che non era proprio, a rigor di logica, quella “boiata pazzesca” stigmatizzata dal professor Giovanni Fiandaca, e poi da tanti suoi emuli, per prendere le distanze dall’ipotesi accusatoria dei pm Antonino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e, inizialmente, Antonio Ingroia.
Era infatti cosa, la Trattativa, per la quale si poteva vivere o morire.
E Paolo Borsellino ne morì.

Foto originale © Shobha

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La rubrica di Saverio Lodato

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