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mancino nicola c ansa 4di Saverio Lodato
Parole pronunciate quasi d’un fiato, dopo sei anni di processo sulla Trattativa Stato-Mafia, sul filo dei secondi finali. Parole per certi versi impreviste, imprevedibili. Un lancio lungo in area avversaria - si direbbe calcisticamente - mentre si è sotto di un goal e stanno scadendo i minuti di recupero.
Prova ne sia che la Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille, chiamata ad emettere sentenza, si è ritirata in camera di consiglio subito dopo aver raccolto l’ultima accorata autodifesa di Nicola Mancino, già vice presidente del CSM, ministro degli interni, presidente del Senato, in anni che furono. E oggi alla sbarra per falsa testimonianza.
Ce n’è voluto. Mancino ha ammesso con parole chiare e inequivocabili di avere conosciuto e incontrato Paolo Borsellino, in quella fatidica data del 1 Luglio 1992.
Circostanza per anni da lui sempre negata. Da lui sempre respinta, come fosse invenzione dei suoi calunniatori. Con il plateale ricorso alle sue agende personali, dove, a quella data, nessun incontro, con il magistrato che di lì a diciotto giorni sarebbe stato assassinato in Via D’Amelio, risultava per iscritto. E se l’incontro con Borsellino non era in agenda - arguiva Mancino - ciò significava che quell’incontro non era mai avvenuto. Poi, messo alle strette da accusa e testimoni, aveva finito con il riconoscere che qualche approccio con il giudice, che poi era stato assassinato, poteva pure esserci stato.
Dice oggi Mancino: "Quel giorno, appena eletto ministro degli interni, il capo della polizia mi disse che il dottor Borsellino voleva salutarmi. Ci fu solo una stretta di mano, solo quella, nessun dialogo… Tutto il resto è una grande congettura". Quindi, l’incontro ci fu.
E verrebbe da chiedersi: perché "solo una stretta di mano, solo quella, nessun dialogo…"?
Stiamo parlando di un ministro dell’interno, appena nominato, che incontra il magistrato che è erede naturale di Giovanni Falcone, massacrato a Capaci, appena quaranta giorni prima, insieme a moglie e uomini della scorta.
Mentre l’Italia è in ginocchio. Mentre l’opinione pubblica è sconvolta per la strage di Capaci. Mentre il mondo guarda all’Italia. E invece, dice Mancino: solo una stretta di mano, nessun dialogo. Sembra quasi il protocollo comportamentale quando si incontra un "contagiato". Ma così è.
Mancino, che aveva sempre negato l’incontro, avrà sudato sette camicie prima di questa sua definitiva ammissione. Un’ammissione che mette una pietra su tutte le sue incertezze, i suoi ripensamenti, i suoi dico e non dico, i suoi dico ma non mi ricordo, con i quali era andato avanti nella speranza di glissare su uno snodo decisivo. Prendiamone atto.
E prendiamo atto anche di quest’altro passaggio del suo sfogo finale: "Con le telefonate all’allora consigliere giuridico del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, non volevo assolutamente interferire sull’attività dei magistrati di Palermo. Chiedevo il coordinamento, non l’avocazione. A posteriori, dichiaro che era preferibile non telefonare".
E già: sarebbe stato senz’altro meglio.
E meglio ancora sarebbe stato evitare anche il successivo scambio di telefonate con Giorgio Napolitano, allora capo dello Stato.
Brutta pagina della storia d’Italia.
Brutta pagina istituzionale.
E’ la storia di questo processo che in tanti avrebbero voluto che non fosse mai stato celebrato. Invece, il processo si è svolto regolarmente nel rispetto dei diritti di tutte le parti. E persino l’ultimo sfogo di Mancino, che ha ricordato ora ciò che non ricordò allora, dimostra che andava fatto.
Adesso la parola passa alla Corte.

Foto © Ansa

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