di Saverio Lodato
Una volta li chiamavano i Dannati della Terra, gli sfruttati, i colonizzati, schiavi di colore nero, reietti che servivano ad ingrassare l’oleata macchina di imperialismi secolari, donne e uomini a perdere, la forza bruta del lavoro. Ma accadeva ai tempi in cui il mondo era ancora separato dalle ideologie: visioni differenti del possibile modo di essere delle società sparse nel pianeta, visioni utopistiche che però con il tempo si sarebbero infrante al duro cospetto delle tante lezioni della storia. Oggi, i dannati della terra, non sappiamo più come chiamarli.
Hanno milioni di volti, ma non hanno un nome che li accomuni, che li distingua.
Immigrati? Emigrati? Clandestini? Profughi? Respinti? Indesiderati?
Ogni parola racconta solo di un "pezzo" di loro, delle loro vite, della loro comune tragedia.
Sbarcano, atterrano, scappano, sono respinti, bersagliati, annegano, si ritrovano, quelli ai quali va meglio, in un eterno punto di partenza. Immobili, cioè, nella loro disperazione, che pretendeva di capovolgersi in speranza.
Sanremo, il Festival di Sanremo.
E quale italiano di buon senso avrebbe mai potuto prevedere che la più grande umiliazione per la Politica Italiana sarebbe esplosa all’improvviso dentro il tempio delle "canzonette"? E’ accaduto, però.
Ma il monologo di Pierfrancesco Favino non è "canzonetta", è scossa elettrica.
Scossa elettrica per quei leaders di destra e centro destra che sciacalleggiano, in tempi di campagna elettorale, per racimolare voti.
Scossa elettrica per quei leaders di sinistra e centro sinistra che si lanciano all’inseguimento degli sciacalli nella speranza di recuperare quei voti che temono di perdere.
Scossa elettrica per i luoghi comuni. Per le frasi fatte, sull’argomento.
Scossa elettrica per tante anime belle dell’opinionismo giornalistico e televisivo, mai sfiorate dal problema di offrire a lettori e spettatori gli autentici strumenti per capire.
Favino, per far capire di che si tratta, di che stiamo parlando, di quali sono le dimensioni della tragedia, dà voce a uno di loro, uno di quelli che una volta, ai tempi delle ideologie, venivano chiamati i dannati della terra.
Ed è sembrata che si udisse forte, di fronte a milioni e milioni di italiani, una voce che veniva dal profondo, una voce collettiva che da anni ormai viene ignorata perché nessuno ha interesse a raccoglierla e ascoltarla.
E’ la voce dell’"altro". Di quello che vediamo solo sotto numero e forma di statistiche. Di esercito minaccioso che invade i nostri confini. Esercito che contaminerà irrimediabilmente la nostra "razza bianca". Esercito di nemici che vogliono toglierci le nostre case, il nostro lavoro, i nostri figli, le nostre sicurezze, persino il nostro tricolore. Esercito che non ha un nome, perché non può avere un nome l’orda che rischia di sommergerci.
Facendone parlare uno, Favino li ha fatti parlare tutti.
Favino, moltiplicando all’infinito il testo di Bernard-Marie Kolthes, ha riscattato per una sera il silenzio di regime - che non è solo italico, si badi bene -, che è stato spalmato a piene mani da legioni e legioni di sciacalli.
I quali, ora, diranno la loro.
Saranno intervistati a norma di "par condicio", per esprimersi su questa imprevista scossa elettrica che è piovuta su di loro dal Tempio delle "canzonette".
Speriamo solo che, dopo il monologo dell’altra sera, gli italiani abbiano imparato ad avere un po’ meno paura dell’"altro".
Un "altro" che, come tutti noi, ha diritto ad avere la parola.
VIDEO
Pierfrancesco Favino emoziona Sanremo con il monologo "La notte poco prima delle foreste"
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La rubrica di Saverio Lodato
La scossa Favino che incenerisce gli sciacalli
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