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falcone borsellino 610 c ansadi Saverio Lodato
Il povero Marcello Dell'Utri marcisce in galera per una condanna per mafia a sette anni resa definitiva dalla Cassazione. Tenendo conto che Dell'Utri è stato, insieme a Silvio Berlusconi, uno dei fondatori di Forza Italia (in tutto furono due, non più di due, lui e Berlusconi, appunto), e per una ventina d'anni senatore della Repubblica italiana, chiunque, dotato di buon senso, dovrebbe restare a bocca aperta.
Che ci faceva un leader politico di prima grandezza dentro la suburra di Cosa Nostra? Quali equilibri, sul piano personale, prima, e su quello politico poi, riuscì a trovare con un'organizzazione criminale che da un secolo e mezzo insanguina la Sicilia e l'Italia intera?
Come divideva il suo tempo libero - è sempre di Dell'Utri che stiamo parlando - fra la villa di Arcore, i cavalli di Berlusconi, la presenza di piombo dello stalliere, anche lui mafioso, Vittorio Mangano, le riunioni con Berlusconi, quelle di Publitalia, le rimpatriate periodiche con boss e picciotti delle borgate palermitane?
Ecco perché, solo a porre queste domande, si dovrebbe restare a bocca aperta, impietriti, sgomenti.
Oggi queste domande, che altro non sono che il cuore nero di una faccenda sporca, tornano prepotentemente alla ribalta a seguito dell'iniziativa della Procura di Firenze di iscrivere, non solo Dell'Utri, ma anche Silvio Berlusconi, nel registro degli indagati per le stragi di Roma, Milano e Firenze.
L'orchestrina garantista, che da anni taceva, paga del fatto che Berlusconi aveva iniziato una sua seconda vita da Padre Costituente nonché da Grande Scudo di tutti i "populismi" che "minacciano" l'Italia, ha ripreso in queste ore a farsi sentire.
Ancora? Daccapo? Ma allora il tempo non passa mai?
Ma la posizione dei due esponenti politici, quali eventuali mandanti delle stragi, non era già stata archiviata per ben due volte?
Cosa c'è di nuovo che è emerso in questi venticinque anni?
L'ennesimo esempio di giustizia a orologeria, visto che fra qualche giorno si vota in Sicilia?
I musici dell'orchestrina sono sconsolati.
Qualche giorno fa, infatti, alla notizia che il boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, aveva fatto scena muta al processo in corso a Palermo per la trattativa Stato-Mafia, avevano platealmente applaudito.
Convinti, com'erano, che le 5000 pagine (zeppe di omissis) che racchiudono le intercettazioni in cui Graviano chiama pesantemente in causa per le stragi Berlusconi e Dell'Utri, sarebbero mestamente finite al macero.
Sono pagine del Demonio - se ci è concessa la forzatura - visto che sono state inviate alle Procure di Firenze e Caltanissetta, da Nino Di Matteo, oggi nella Procura antimafia, che non ha l'abitudine di insabbiare tutto ciò che può contribuire all'accertamento della verità.
Di Matteo quelle intercettazioni le ha disposte. Le ha raccolte. Le ha portate in processo. Le ha trasmesse ai colleghi, competenti sull'argomento, in altre città. Lui, ovviamente, insieme ai sostituti Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi.
Uno sforzo demoniaco per rovinare la reputazione di due grandi Padri della Patria, pensa qualcuno.
Però andrebbe anche ricordato per dovere di cronaca - e puntigliosamente lo scrive oggi il collega Salvo Palazzolo - che ognuna di quelle due archiviazioni del passato conteneva un carico da novanta sui rapporti consueti e consolidati fra Berlusconi e Dell'Utri e la suburra di Cosa Nostra.
Questo l'orchestrina garantista lo sa bene e potrebbe anche farsi qualche esame di coscienza.
In altre parole, per cercare di capire come andarono davvero le cose, il tempo è tutt'altro che scaduto. Anche la Procura di Caltanissetta, per esempio, e ce lo dicono i giornali di oggi, sta riflettendo e valutando il da farsi.
Morale della favola: le responsabilità penali per una strage non diventano mai "cosa vecchia". E questo ci lascia ben sperare.

Foto © Ansa

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La rubrica di Saverio Lodato

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