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lodato mancino sfingeIl buongiorno della sfinge
di Saverio Lodato
Eccolo qui il campione pluridecorato delle istituzioni che andrebbe indicato alle nuove generazioni come fulgido esempio della passione civica, amore per la verità, incrollabile spirito collaborativo con la giustizia.
Eccolo qui, autentica sfinge - soltanto mimica e facciale, si capisce - un po’ imbolsita dagli anni, l’uomo insigne del "club del potere italiano" che parla, ma non risponde; dichiara, ma non ricorda; si difende dall’accusa di contraddirsi rilanciando infastidito, perché son sempre gli altri a mentire; taglia corto quando si rende conto che persino senso comune e buon senso entrano violentemente in rotta di collisione con i suoi plateali e sconcertanti "non ricordo"; si aggrappa, con le unghie e con i denti, ai suoi trascorsi, allo status di "intoccabile" che non intende barattare con quello di "imputato".  
Eccolo qui l’ex vice presidente del Consiglio Superiore della magistratura, l’ex ministro degli interni, l’ex presidente del Senato, che, non fosse stato per un’intera vita da democristiano, non avrebbe sfigurato per nulla nelle foto commemorative che raffiguravano l’incartapecorito potere sovietico; la sfinge, insomma, per il quale si scomodarono, pagando un prezzo salatissimo di immagine, un consigliere del Capo dello Stato e lo stesso Capo dello Stato.
Non aveva molto senso aspettarsi granché da Nicola Mancino, venuto a deporre al processo di Palermo sulla Trattativa, fra lo Stato e la Mafia, di fronte alla corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto.
Cu nasci tunnu, dice l’antico adagio siciliano, un po’ moriri quadrato.
E il buongiorno della sfinge si era già visto dal mattino di tanti anni fa, quando aveva negato d’aver mai conosciuto Paolo Borsellino, nei giorni in cui era già stato assassinato Giovanni Falcone, mentre proprio lui, Mancino Nicola, si era ritrovato al vertice del Viminale, al posto di Vincenzo Scotti ormai poco gradito al "club del potere" perché considerato troppo inflessibile rispetto agli ambienti mafiosi e para mafiosi.
Né era valso a nulla fargli notare che Borsellino, nella sua agenda, in data 1 luglio 1992 (cioé a strage di Capaci ormai consumata) aveva trascritto proprio la sua visita al neo eletto ministro.
L’agenda di Borsellino contro la mia, era stata la singolare autodifesa del Mancino: e a quella data, nella "mia" agenda non c’è scritto nulla. Ci vollero anni per fare ammettere alla sfinge che forse, magari, può darsi, perché escluderlo?, da qualche parte i due si fossero incontrati e persino stretti la mano.
Tutto il resto venne da sé. E fu in discesa.
Mancino Nicola non aveva mai tramato per alleggerire il "carcere duro" dei mafiosi.
Mancino Nicola non venne mai informato che si erano aperti canali di collaborazione fra il Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, democristiano anche lui e mafioso, per alleggerire la pressione stragista di Totò Riina e Cosa Nostra.
Mancino Nicola né vide il "papello", con le richieste dei boss allo Stato Italiano in cambio del silenzio delle armi, né mai ne sentì parlare.
Le contrarie dichiarazioni di Claudio Martelli, allora ministro della giustizia, di Vincenzo Scotti, di alti funzionari del ministero di Grazia e giustizia? Ricordano tutti male. Parola di sfinge che viene da lontano.
Quanto valgono, processualmente parlando, s’intende, le parole e i silenzi che hanno infiorettato le dichiarazioni spontanee del potente che non si rassegna al ruolo d’imputato? Lo stabilirà la corte.
Ma quando diciamo che - almeno noi - non ci aspettavamo granché, ci riferiamo a quella voce dal sen fuggita che fece dire a Mancino Nicola, nel corso di una delle sue telefonate dello scandalo con Loris D’Ambrosio, consigliere del capo dello Stato di allora, Giorgio Napolitano, (e diventate, almeno queste, pubbliche): "se non vengo difeso non intendo restare da solo con il cerino in mano".
Forse, ma è solo un pensiero che ci passa per la testa, questa frase peserà nel processo di Palermo molto di più delle rettifiche snocciolate da Mancino Nicola davanti al pretorio.
Il quale Mancino tutto poteva fare, dal suo punto di vista, tranne che acconsentire alla richiesta garbata di lasciarsi interrogare, formulata dal presidente della corte, Alfredo Montalto. Il quale, sia detto per inciso, ha fatto benissimo a formularla.

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La rubrica di Saverio Lodato

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