di Saverio Lodato
Sfogliamo inutilmente i giornali, alla ricerca di una sia pur minima notizia che dia conto dell’imminente scadenza, fissata dal CSM per il 7 novembre, in cui Nino Di Matteo dovrà finalmente decidere se restare o lasciare Palermo. L’argomento non è gradito. Non piace, non tira, e meno se ne parla meglio è. E in questo, sfogliando i giornali, non scopriamo nulla di nuovo.
Apparentemente, il CSM si sta facendo carico delle preoccupazioni diffuse e crescenti per l’incolumità di questo P.M. “controcorrente” - “controcorrente” lui, come “controcorrente” è un pugno di altri suoi colleghi -, che si è intestardito nel volere scoprire se ci fu (e Dio solo sa se ci fu!) una sporca trattativa fra lo Stato e la Mafia. Quella in cui lo Stato rinunciò alle sue prerogative chiudendo un occhio sulle stragi del 1992 e 1993 ottenendo in cambio la fine, da parte di Cosa Nostra, della medesima parentesi stragista.
Il CSM, da parte sua, si è convinto che Di Matteo a Palermo rischia molto e prima se ne va meglio è.
Negli ultimi tre anni, infatti, quelle che prima erano piccole luci di allarme attorno alla sua persona sono diventate un’autentica luminaria, come dimostrato da intercettazioni ambientali e telefoniche, deposizioni di pentiti e voci mafiose “dal di dentro”, tutte univoche nel dire e nel ripetere che Di Matteo “deve morire”. Insomma, se lo stesso CSM, che in tempi assai recenti ha bocciato speciosamente le legittime richieste di questo P.M. di andare a ricoprire un incarico presso la Procura nazionale antimafia, è assai preoccupato, ciò significa che la misura è davvero colma.
Ma l’avverbio “apparentemente” che abbiamo adoperato, riferendolo ai timori del CSM, si giustifica tutto proprio in considerazione del fatto che l’organo di autogoverno della magistratura non ha alcuna intenzione di tirare le debite conclusioni rispetto all’interrogativo che ormai è diventato ineludibile: ma perché Di Matteo è stato condannato a morte? Perché Di Matteo deve morire?
Siccome neanche i giornali lo vogliono dire, preferiscono tacere.
Così, in assoluta solitudine, sta a Di Matteo scegliere fra “la vita” e la “morte”, senza che un domani qualcuno possa dire che non era stato avvertito, consigliato, dissuaso, messo sul chi va là. Tutti, insomma, si stanno mettendo il cuore in pace.
Qualche giorno fa, in altro articolo, ci permettemmo di scrivere che un simile invito a “lasciare Palermo” non può ritenersi solo farina del sacco del CSM, se non altro perché dovrebbe essere messa in moto una “macchina” complessa - (finora nessuno è mai entrato nella Procura antimafia per “chiamata diretta”, neanche dello stesso CSM) - che però, di contro, non potrebbe essere messa in moto senza un previo assenso del Capo dello Stato. Almeno così, grossolanamente, la pensiamo noi.
Restiamo infatti dell’avviso che il “previo assenso” ci sia, sebbene da parte degli uffici del Quirinale è stato ventilato che un conto sono le preoccupazioni del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, circa i rischi che corre Di Matteo, altro conto è un suo plateale invito a lasciare Palermo, che, si sottintende, non c’è e non è stato in alcun modo formulato.
Sia chiaro: in questo invito non ci sarebbe nulla di scandaloso. Scandaloso, semmai, sarebbe se il Capo dello Stato non fosse giunto a dare una risposta all’interrogativo di cui sopra: “perché Di Matteo deve morire?”. Ma qui ci fermiamo perché non pretendiamo di insegnare il mestiere a nessuno, meno che mai alla massima carica dello Stato.
Ci limitiamo a constatare che non sono pochi quelli che tirerebbero un sospiro di sollievo se Di Matteo, lasciando Palermo, si spogliasse contemporaneamente del processo sulla Trattativa Stato-Mafia che è in corso a Palermo.
E non ci riferiamo solo agli imputati alla sbarra, che, si capisce, preferirebbero che il dibattimento andasse a scatafascio.
Ci riferiamo a quella vastissima palude che da decenni ostacola qualsiasi accertamento di verità sulla parallela esistenza, in Italia, di uno Stato-Mafia e di una Mafia-Stato.
Dobbiamo ricordare ancora una volta le vicissitudini che dovette attraversare il “pool” antimafia di Falcone e Borsellino?
Dobbiamo ricordare ancora una volta come vennero messi in croce, ai tempi di Caselli, magistrati antimafia e collaboratori di giustizia, “rei” di aver provocato il processo per mafia al “mitico” sette volte presidente del consiglio Giulio Andreotti?
Con il processo sulla Trattativa fra lo Stato e la Mafia si pretenderebbe di salire ancora di più di livello. E la palude non ci sta e rumoreggia.
E quegli stessi giornali che sfogliamo nel tentativo di trovare traccia della scadenza del 7 novembre, giornata in cui Di Matteo è chiamato a riferire al Csm se preferisce “vivere” o “morire”, non perdono occasione di ripetere che il processo di Palermo si basa su una “boiata pazzesca”.
Il che ci convince, ancora di più, di quanto questo processo sia “sacrosanto”.
Al punto in cui sono giunte le cose, ci piacerebbe dare un suggerimento a Nino Di Matteo.
Ma preferiamo tenerlo per noi.
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La rubrica di Saverio Lodato