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spampinato lapide normandiaI giornalisti e lo sbarco in Normandia
di Saverio Lodato
Uccisi dall’invasore. Sacrificati sull’altare della Patria. Morti in combattimento perché il nostro futuro fosse migliore. Vite spezzate, lontano da casa, dalle famiglie, dagli affetti. Pagine ormai sbiadite di una storia che fu. Pagine che altri, ora, vorrebbero riscrivere. Restano le casematte, i crateri, le traballanti passerelle in legno, sulle quali misero piede Churchill e De Gaulle, le bandiere delle nazioni, i drappi dei reggimenti, le carcasse dei carri, dei tank, delle jeep, degli aerei abbattuti, i cannoni e le mitragliatrici mangiati dalla salsedine, i piccoli ospedali da campo, le foto delle crocerossine, i pugnali arrugginiti, le macchine fotografiche tascabili delle spie, le radio trasmittenti, le divise logore…
Restano i musei che espongono i plastici e le mappe delle 5 spiagge dello sbarco con i loro nomi in codice: "Utah", "Omaha", "Gold", "Juno", "Sword", con affiancati i nomi dei generali alleati e tedeschi che si fronteggiarono sino alla morte. E si possono vedere i grandi documentari in cinerama che ispirarono Spielberg per il suo: "Salvate il soldato Ryan".
Ma non siamo, e si vede subito, dentro gli Universal Studios di Hollywood.
Tira giù una pioggerellina fitta, fra le croci bianche del Cimitero Americano di Colleville sur Mer, verde distesa pacifica, a perdita d’occhio, di lapidi e nomi che ha tenuto puntigliosamente conto dei 9387 soldati statunitensi caduti sulle spiagge del D-Day. E le guide si incaricano, altrettanto puntigliosamente, di specificare che il numero dei morti censiti non superò il quaranta per cento delle perdite reali essendo moltissimi quelli, che per volere dei parenti, sono oggi seppelliti in America.
Ci sono turisti da ogni parte del mondo. Gente di tutte le età. Vengono avanti carrozzine con reduci di allora, sopravvissuti allo sbarco, oggi ricoperti di medaglie ed alamari, spinte in avanti da nipoti che nacquero dopo. Ma non si respira aria da kermesse paesana. Non fosse per il tubare dei colombi, il silenzio sarebbe immenso.
I cimiteri servono. E servono le lapidi. Serve il marmo bianco e servono i bulini. Altrimenti che resterebbe a raccontarci la storia dell’uomo?
Trascorrere qualche giorno in questa parte della Normandia, rivisitare luoghi e cimeli dell’invasione alleata in Francia che servì a chiudere in una tenaglia l’armata nazista, è utile a tutti. A quanti hanno una conoscenza solo cinematografica di quei fatti, a quanti ancora non erano nati, a quanti non hanno certezze sulle dimensioni reali di quella carneficina che, insieme all’avanzata sovietica nel cuore dell’Europa, e a venti milioni di morti, fu decisiva ai fini dell’esito del secondo conflitto mondiale. E sarebbe utilissima a quei negazionisti i quali, in quanto tali, non sono in condizione di sapere leggere il presente e rivendicano adesso un idiota "diritto all’oblio".
C’è il cimitero degli americani, e ci sono quelli degli inglesi, dei canadesi, dei polacchi… Cambia il colore delle croci, cambiano i numeri, cambiano le località, ma dappertutto sembra che a essere bandita sia stata la retorica.
E’ così che a maggio di quest’anno, passeggiando quasi per caso dentro il cimitero di guerra di Bayeux, dove sono raccolte le spoglie dei soldati del Commonwealth, altre migliaia di cadaveri per intenderci (4848), ci siamo imbattuti, a qualche centinaia di metri di distanza, nel "Memorial des Reporters", voluto dalla città di Bajeux in collaborazione con l’associazione "Reporters Without Borders".
Un fitto boschetto di cipressi è occupato da lapidi verticali che danno conto - altrettanto puntigliosamente di quanto accade per i militari caduti -, di nome, cognome, data di nascita e di morte, degli oltre duemila giornalisti che sono stati assassinati nel mondo dal 1944, anno dello sbarco in Normandia. Li hanno uccisi i militari, i regimi, i colpi di stato, i trafficanti d’armi, i trafficanti di droga, i "Paesi civili", i fanatismi di ogni religione,  eccetera eccetera eccetera…
I "nostri "colleghi, invece, li uccise la mafia.  
Ecco perché in quelle lapidi, in corrispondenza dei singoli anni, ci stanno i nomi di tutti i giornalisti siciliani uccisi proprio per mano di mafia.  
Io non sapevo che esistesse quel luogo. Un luogo simile, così sobrio, così toccante.  
Non sapevo che una mano intelligente avesse deciso di equiparare, nel ricordo delle genti a venire, i soldati che sfidarono i nazisti e gli scrittori di parole che combatterono un "altro nemico".  
E anch’io, quasi posseduto dal demone della puntigliosità che aleggia da queste parti, mi sono dato a cercare, verificare, trovare riscontri.
Mauro De Mauro e Mario Francese e Giuseppe Fava e Mauro Rostagno e Peppino Impastato…: i loro nomi stanno tutti lì, a ricordarci il valore di un mestiere.
Quale disappunto, allora, ho provato leggendo, nella lapide del 1972, il nome di "Giovanni Spampanato".
No. Non si chiamava così il giornalista de "L’Ora" di Palermo assassinato dai mafiosi. Si chiamava: Giovanni Spampinato.
E siccome in un luogo del genere non possono essere ammessi i refusi, non dovrebbe essere difficile rimuovere quella lastra di marmo e correggere il nome.
Tutti loro, infatti, stanno lì a ricordarci che di "parole" si può morire.

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La rubrica di Saverio Lodato

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