di Saverio Lodato
Lasciatemi dire che Giorgio Napolitano deve essere ancora terrorizzato per il contenuto di quelle sue telefonate della vergogna con l'imputato Mancino Nicola delle quali pretese e ottenne la distruzione, ormai tre anni fa, quando il Processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia entrò nel vivo. Lasciatemi dire che non ci deve dormire la notte, l'ex Capo dello Stato, se ancora oggi il ministero di Grazia e Giustizia, nella persona dello zelante ministro Andrea Orlando, attizza ispezioni a freddo per verificare che quelle bobine andarono effettivamente distrutte, non ne esistono altre copie, doppioni e triploni. Ispezione "cartolare", è l'eufemismo adoperato, ma ispezione è. E in piena regola.
Con tutti i misteri irrisolti che ci sono in Italia? Con la valanga di stragi, delitti eccellenti, omicidi che si trascinano stancamente da decenni nelle aule di giustizia senza mai arrivare al punto finale della verità; è questa l'emergenza del ministro di un governo che dichiara di voler cambiare l'Italia, il suo sistema politico, i rapporti fra la stessa giustizia e la politica?
Cascano le braccia. Ma addentriamoci meglio nella questione. La direzione della Procura di Palermo, che quando l'Alta Corte ordinò la distruzione del contenuto di quelle telefonate era diretta da Francesco Messineo, nel ribadire per l'ennesima volta che non erano stati riscontrati profili penali, ordinò la distruzione e certificò ufficialmente che l'atto era avvenuto.
Ora Orlando torna a scavare, a cercare, congetturando che la Procura di Palermo predicò bene e razzolò male, tenendosi una copia a futura memoria degli scabrosi dialoghi Mancino-Napolitano. E a finire nel mirino sono i soliti noti: Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Lia Sava, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Paolo Guido (e non ci dimentichiamo di Antonio Ingroia, ormai "attore...non protagonista", essendosi dimesso dalla magistratura, ma ancora oggi attenzionato dagli "amici degli amici"). Tutti pubblici ministeri che quelle intercettazioni trattarono per ragioni del loro ufficio.
Che gran bella fiducia il ministro ripone nella parola d'onore dei suoi magistrati! Che esempio di trasparenza è ritenere che le Procure siano Suk levantini zeppe di cunicoli e botole dove occultare armi contundenti in vista di futuri regolamenti di conti con le altre Istituzioni.
Ma così è. E allora diventa sacrosanto, legittimo, doveroso, e politicamente correttissimo, giornalisticamente ineccepibile, tornare a interrogarsi su quanto i due si dissero per telefono. Vedete, non c'è niente di nuovo a questo proposito sotto il Cielo dell'antimafia.
Ricordo, ma è solo un esempio, quando, verso la fine degli anni '80, essendo esploso l'ennesimo "caso Palermo" il ministro della giustizia di allora volendo fare le pulci al lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inviò in Sicilia una delegazione di ispettori guidati da Vincenzo Rovello. Si trattava di accertare se il "pool antimafia" stesse facendo il suo dovere. Perché un coro vociante di avvocati dei mafiosi, magistrati "equidistanti fra la mafia e l'antimafia", una cupoletta di giornalisti sedicenti garantisti strillava che Falcone e Borsellino stavano scempiando le regole dello Stato di diritto. Vincenzo Rovello indagò, valutò, ponderò e scrisse una relazione di alto encomio per il lavoro di quei magistrati che venne resa pubblica. La canea vociante fu costretta a indietreggiare.
E ricordo, ma è solo un altro esempio, che una delle prime iniziative prese da Falcone appena nominato direttore degli Affari penali, quando si trasferì a Roma perché gli avevano reso impossibile il suo lavoro palermitano, fu quella di "monitorare" tutte le sentenze di mafia che recavano la firma di Corrado Carnevale, pittorescamente definito dai giornali "il giudice ammazzasentenze". E questo perché i mafiosi processati da Carnevale in Cassazione risultavano regolarmente innocenti e assolti con tante scuse. C'entra questa vicenda di Carnevale con il tormentone delle telefonate Mancino-Napolitano? Secondo me si.
Falcone fu assassinato, Gian Carlo Caselli andò alla guida della Procura di Palermo, e in una visione visionaria della lotta alla mafia, impossibile definirla altrimenti, riprendendo proprio il lavoro di Falcone, portò a processo Carnevale per "concorso esterno in associazione mafiosa". Ma Carnevale, che era stato condannato in secondo grado, venne assolto. Lo sapete perché?
Perché i pubblici ministeri avevano acquisito e portato in dibattimento le deposizioni degli stessi colleghi di Carnevale, molti dei quali avevano raccontato quanto "il giudice ammazzasentenze" si desse da fare per dare una mano agli imputati di mafia indicando fatti e episodi specifici. Ma - sentenziarono i giudici della Suprema Corte - essendo le sedute della Cassazione coperte da segreto, non potevano essere rese pubbliche.
Ecco il passaggio testuale: "Il giudice penale ha l'obbligo di astenersi dal deporre, come teste, per quanto riguarda ciò che avviene nelle camere di consiglio, quando i magistrati decidono i loro verdetti in assoluta segretezza". C'è di più. I giornali, che all'epoca erano un po' più riottosi di quanto non lo siano oggi alla mordicchia dei poteri forti, pubblicarono le intercettazioni telefoniche a carico di Carnevale. In una di queste, il simpatico "ammassantenze" parlava papale papale, come usa dire: Giovanni Falcone? "È un cretino." Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? "I dioscuri." Il loro sacrificio? "Non avrei portato a spalla certe bare... Rispetto certi morti, certi altri no".
E quando i giornalisti gli rinfacciarono simili giudizi, se la cavò dicendo: "È vero che avevo una stima negativa nei confronti di Falcone e Borsellino, ma nessuno, a parte il Papa, è infallibile e il mio è un giudizio tecnico professionale". Ma Carnevale assolto fu e assolto rimase, con buona pace di Falcone e di Caselli.
Perché sono andato a scomodare storie tanto vecchie? Per la semplicissima ragione che neanche le intercettazioni di Carnevale furono considerate "penalmente rilevanti". Esiste infatti una legge che vieta di definire Falcone un "cretino"? No. C'è forse una legge che obblighi il cittadino a portare a spalla i fedeli servitori dello Stato, assassinati dalla mafia? Certo che no. Ma ciò non toglie che chi simili frasi pronunciò, semmai dovessero essere rese pubbliche, un pizzico di vergogna lo proverebbe. Voi non pensate che se Carnevale avesse avuto il potere di chiedere la distruzione delle sue telefonate non l'avrebbe fatto? Certo che si. Sarebbe evidente, umano, quasi.
E torniamo a Napolitano. Il quale, invece, quel potere ebbe e adoperò. Lo fece - disse all'epoca dei fatti - per tutelare la carica di Capo dello Stato. Ma oggi? Teme che quelle telefonate finiscano in mano agli storici del futuro? Ma questa non può e non dovrebbe essere la preoccupazione di un ministro della giustizia di oggi.
E quanto a Napolitano, per concludere, se in quelle telefonate non c'è nulla di compromettente per la sua persona, si decida a renderle pubbliche lui stesso, una volta e per sempre.
In caso contrario, non si meravigli che qualcuno gliene chieda conto all' infinito.
È anche per questo che esistono la stampa e la libertà di stampa.
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La rubrica di Saverio Lodato
Quelle telefonate che terrorizzano Giorgio Napolitano
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