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lodato bindidi Saverio Lodato
Ha ragione Rosy Bindi. E ha ragione senza se e senza ma. E merita dunque un plauso, non tanto per quello che ha detto, e che in Italia sanno tutti, ma per averlo ripetuto, non arretrando di fronte al polverone degli "indignati" che pretendevano un suo atto di contrizione una volta che la santabarbara era esplosa. La Bindi ha detto che Napoli e la camorra sono la stessa pasta, che una non può prescindere dall’altra, che anzi la camorra è elemento costitutivo della storia stessa della città. Come darle torto?  
Se ragazzini di dieci anni imbracciano i kalashnikov, se ci sono quartieri dove le forze dell’ordine non si arrischiano ad entrare, se le esecuzioni a colpi d’arma da fuoco scandiscono il tremendo tran tran dei regolamenti di conti, non ci vuole un particolare acume sociologico per esprimersi come si è espressa la Bindi. Basterebbe riconoscere l’evidenza, prendere atto di quanto la metastasi sia entrata in profondità nel tessuto del capoluogo campano. E il discorso sarebbe chiuso.

D’altra parte questa è una storia vecchia che si ripete. Anche in Sicilia, in epoche lontane, quando si affastellavano i cadaveri di mafia, si levava puntuale la voce del politico di turno per lamentare che qualcuno stava scempiando "l’immagine della Sicilia"; ma il riferimento non era ai mafiosi, l’accusa veniva infatti rivolta a quanti la mafia la denunciavano e la combattevano. Non dimenticheremo mai, a tale proposito, come all’indomani dell’uccisione a Palermo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982), sul banco degli imputati finì suo figlio Nando, che in un libro si era permesso di scrivere, per Palermo, concetti analoghi, a quelli utilizzati oggi, per Napoli, dalla Bindi. I suoi accusatori, giusto per fare qualche nome, rispondevano ai nomi di Salvo Lima, del sindaco di Palermo Nello Martellucci, del presidente della regione siciliana, Mario D’Acquisto…
Niente di nuovo sotto il sole. Ma sarebbe ora che si riconoscesse una buona volta che come la camorra è elemento costitutivo della storia della città di Napoli, la mafia lo è di quella della Sicilia, la 'ndrangheta di quella della Calabria. E che si riconoscesse che da anni, ormai, le mafie d’Italia hanno spiccato il volo dalle loro regioni d’origine invadendo l’intero territorio nazionale. L’ultima Vedetta Lombarda che non si era accorta di quanto era accaduto era Bobo Maroni che strepitava perché qualcuno si era permesso di dire che la mafia calabrese era arrivata in Lombardia.
E negli ultimi mesi, la vicenda di Roma che è apparsa a tutto il mondo per quello che è, vale a dire la Capitale di uno Stato-Mafia, non è forse la riprova di un’infiltrazione massiccia dei poteri criminali nei gangli istituzionali, oltre che sul territorio, cosa questa che già si sapeva? Invece, si scioglie il Comune di Ostia perché Roma intenda… Ma Roma non si tocca, perché Il Pd pretende così per ragioni elettoralistiche. E tutt’al più si grida allo scandalo se sfilano i cavalli neri al funerale di Vittorio Casamonica, "Re di Roma", fra note del Padrino e petali di rosa, o quando i Casamonica fanno gli onori di casa a "Porta a Porta".  
Sono cose ovvie, evidenti. In Italia, la colpa è sempre del "cinematografo"… Che ci vuole per capirlo? Invece sono fatti, sono immagini che non usciranno più dall’immaginario collettivo degli italiani. Come le facce di Buzzi e del "cecato", o quella del ministro Poletti che pranzava, a sua insaputa, nella bella tavolata che raccoglieva tutti i capi tribù (Pd Incluso) che a Roma si erano spartiti ogni foglia che si muoveva, immigrati compresi.
Per inciso: le cronache ci informano che il prefetto Franco Gabrielli ha posto finalmente una questione di principio: ma dove sta scritto - ha dichiarato - che il 5 per cento dei lavori in una città grande come Roma debba andare d’imperio alla galassia delle cooperative? E anche in questo caso, per quello che può valere, chapeau al prefetto Gabrielli che tante ne ha sbagliate in questa storia, ma questa, finalmente, ci pare che l’abbia detta molto giusta.  
Ma c’è un gran teorico delle "immagini" del Bel Paese da salvare, e da non "storpiare", che risponde al nome di Giuliano Ferrara. Il quale conduce una personalissima battaglia per spiegare che quella che è saltata fuori dall’inchiesta della Procura romana non è mafia, visto che cadaveri per le strade non ne sono stati raccolti. Anche Ferrara appartiene al mondo dell’ovvio. A lui, infatti, non dispiaceva neanche la mafia siciliana, tanto è vero che quando era più giovane, insieme a un altro specchiato esponente del "garantismo" alla matriciana, il giornalista Lino Jannuzzi, indicava in Michele Greco, allora definito "Il Papa" di Cosa Nostra, un valente coltivatore di limoni; e in Bruno Contrada, mafioso ormai per sentenza di Cassazione, il Poliziotto di gran fiuto triturato nel frullatore dell’Antimafia di Regime.
Ecco perché non ci siamo meravigliati per niente di fronte alla levata di scudi contro la Bindi. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, han fatto il solito pianto delle prefiche, sebbene siano loro, per primi, a sapere su quale vulcano siano adagiate le loro poltrone.
Ma lo devono fare di mestiere, perché non accettano che altre istituzioni mettano il naso nei loro "orticelli", perché i camorristi, sino a prova contraria, votano… E sono tanti voti a finire nel cesto… Anche questo non dovrebbe essere difficile da capire. E poi non dimentichiamo che è da Napoli che è partito il cocchio di cavalli neri diretto a Roma capitale dello Stato-Mafia… per il funeralone Casamonica.
L’Italia è Cosa Nostra. Si può dire? O si fa peccato?

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