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cena-roma-op-mafiadi Saverio Lodato - 3 dicembre 2014
L’inchiesta romana offre ormai la prova provata che i partiti sono diventate "macchine" di corruzione, di ladrocinio, truffa, ricatto, estorsione, concussione, tenute insieme dal "vincolo mafioso" e - questo - indipendentemente dal fatto che singole mafie Spa mettano o meno il loro sigillo in calce agli accordi stipulati. Roma, da ieri, appare agli occhi di tutto il mondo come la Capitale di uno Stato-Mafia dentro la quale hanno cittadinanza esponenti di tutti i partiti, fatta eccezione, almeno sino a prova contraria, del movimento 5 Stelle. Con un solo scopo: rubare a man bassa. Ora si capisce meglio perché, nelle ultime settimane, era iniziato un potentissimo fuoco di sbarramento - nemico, ma anche amico - nei confronti del sindaco Ignazio Marino che era diventato il parafulmine di una città allo sbando, vaso di coccio fra vasi di cemento armato (e armato in tutti i sensi). C’era infatti il tavolo (e la foto di questa tavola rotonda dei criminali associati la pubblica L’Espresso) al quale sedevano tutti, dai ceffi di quella che fu la banda della Magliana, a terroristi di destra, a uomini di Forza Italia, sino ai renziani di nuovissimo conio e a esponenti PD. E si capisce anche perché a guidare le danze contro Marino fosse proprio Alemanno, che si trova adesso indagato per associazione mafiosa. Non si dica che si tratta di affermazioni qualunquistiche.

Il fatto che esistano, dappertutto, parlamentari, senatori e consiglieri comunali che non rubano, né hanno mai rubato, non ridimensiona di una virgola la cloaca scoperchiata dall’inchiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone, e dei carabinieri di Roma. Proprio in questo sta il fatto che i partiti sono diventate "macchine" che alimentano la cloaca: ché a comandare sono pochi onorevoli ceffi al cospetto di una mole ben maggiore di persone per bene che, però, nei partiti non contano assolutamente nulla.
"Capitale corrotta uguale nazione infetta", fu il titolo, sessant’anni fa, di una grande inchiesta di Manlio Cancogni, pubblicata dall’Espresso, sui primi scandali edilizi che scuotevano la Capitale e il Campidoglio. Oggi la definizione più appropriata ci sembra questa: Roma Capitale dello Stato-Mafia. Altro che qualunquismo.
Ieri sera, il caso ha voluto che due ministri del governo Renzi si ritrovassero in due trasmissioni televisive vedendosi rivolte le domande su quanto era accaduto qualche ora prima. La Boschi, a Otto e mezzo, Alfano a Piazza Pulita. Essendoci inflitti la punizione di ascoltarli entrambi, siamo in condizione di dire che i due ministri hanno dispensato cipria e borotalco: la Boschi, dicendo che non servono altre leggi contro la corruzione, perché basterebbe "far bene la propria parte"; Alfano che ha definito "cialtroni" i ladri e concordato, a distanza, con la Boschi sull’inutilità di altre misure repressive.
Ora se si fosse scoperto che a New York o a Berlino, o a Parigi o a Londra, un partito "fascio mafioso", come lo hanno definito alcuni, aveva messo in ginocchio quelle capitali, avremmo assistito a terremoti politici dalle conseguenze incalcolabili. In Italia, niente. Si parla d’altro, preferibilmente di articolo 18.
Fosse venuto in testa a qualcuno di dire che gli imprenditori stranieri si tengono alla larga dall’Italia visto che è diventata una cloaca in mano a mafie vecchie e nuove. Macché.
Renzi, il premier, ormai cammina sui palcoscenici europei con l’andatura caricaturale di un De Gaulle, e su simili argomenti non dice neanche una parola, favorito in questo da giornalisti che non gli rivolgono neanche una domanda. Giorgio Napolitano, il capo dello Stato, mentre continua, a sua insaputa, il balletto sulla data esatta delle sue dimissioni, se ne sta inguattato al Quirinale in attesa che la clessidra delle sue dimissioni rilasci gli ultimi granelli di sabbia.
Ma quale "grande tristezza"?
Questa è la "grande schifezza", a voler chiamare le cose con il loro nome.

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In foto: a ds Gianni Alemanno di spalle. Di fronte Poletti e Panzironi. In fondo i Marrone e Ozzimo

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