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lodato-saverio-c-paolo-bassanidi Saverio Lodato - 5 novembre 2014
Quando un capo dello Stato, (in questo caso Giorgio Napolitano), testimonia in un pubblico processo che di fronte allo stragismo di ispirazione mafiosa '92-'93, i massimi vertici istituzionali percepirono con nettezza e sgomento l’aut aut del Nemico, ci sta dicendo che la Trattativa ci fu, ebbe una sua origine temporale, un suo movente, una sua ratio. Non intendiamo, a una settimana dalla deposizione destinata a restare la "deposizione del secolo", se non altro per la massima figura istituzionale che è stata chiamata a renderla, tirare la giacca a Napolitano, facendogli dire cose che non ha detto. Non ce n’è bisogno.
Se infatti le parole hanno un senso, l’espressione da lui adoperata per riassumere lo scenario storico di allora: "aut aut", di significato ne ha uno solo. E di incontrovertibile leggibilità.
Prova ne sia che Napolitano, dopo averlo pronunciato, correda quel laconico aut aut, con specificazioni in linea con l’assunto iniziale: Il Nemico (ma queste sono parole che scriviamo a modo nostro) minacciava di mettere in ginocchio il Paese, scatenando un attacco frontale alle istituzioni, pretendendo in cambio ammorbidimenti della legislazione antimafia, del regime carcerario, contropartite.

Non ci sembra che sino a oggi questo aspetto sia stato messo debitamente a fuoco. E il non averlo fatto spiega l’indecisione stupita dei media di fronte alle dichiarazioni soddisfatte dei pubblici ministeri Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, dell’intera Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Eppure non era difficile da capire. L’accusa sa di avere portato all’incasso un’ammissione pesante ai fini dello sviluppo del processo sulla trattativa Stato-Mafia che si svolge a Palermo.
Dove, é bene ricordarlo, Napolitano non è imputato alla sbarra, essendo altri gli imputati chiamati a rispondere. In poche parole. Si è dimostrato che il processo ci stava tutto. Si è dimostrato che il processo non poggia sulle sabbie mobili. Si è dimostrato che c’è tanfo di "indicibili accordi" (e su questo torneremo). Ma che questo è anche un "processo bastardo", che nessuno vorrebbe, che nessuno rivendica, che nessuno è disposto ad "adottare" in nome della ricerca della verità. Anni ormai di can can mediatico la dicono lunga sulle responsabilità di chi si sente direttamente minacciato da una Corte d’assise che sta facendo il suo lavoro.
Vediamo meglio. Napolitano, anche qui la diciamo a modo nostro, ha rispedito al mittente tutti gli argomenti farlocchi adoperati dai suoi consiglieri zelanti che rischiavano di farlo apparire come un presidente della repubblica incapace di intendere e di volere. E a tal proposito - va detto - che i consiglieri l’avevano preso sin troppo sotto gamba.
Solo dei minus abens infatti potevano fare il salto della quaglia dal "negazionismo" (la trattativa non ci fu) al "giustificazionismo" (la trattativa ci fu ma a fin di bene) strepitando incolleriti perché i magistrati di Palermo avevano osato interrogarsi, codici alla mano, su quanto accadde nel biennio più tragico della recente storia nazionale.
Solo dei Mandarini di piccole vedute, nella voglia spasmodica di ingraziarsi l’Imperatore, potevano dileggiare pubblicamente dei magistrati che rischiano la vita cercando la verità dove non deve essere cercata: in alto, troppo in alto. E per farlo osarono sfidare il ridicolo, a parole e per iscritto.  
I Consiglieri Mandarini adesso tacciono.
Rossi di vergogna di fronte a quell’"aut aut", attorno al quale ruota il processo di Palermo e su cui si è incentrata la deposizione di Napolitano, perché si sentono tutti, chi più chi meno, come il pifferaio che, andato per suonare, fu suonato. Napolitano se li è scrollati di dosso, come fossero scimmie fastidiose, e, forse in cuor suo, lo diciamo sempre con parole nostre, si starà chiedendo come gli venne in mente di caricarseli sulle spalle.
Ma che fine fece l’aut aut?
Interrogato sul punto, il Testimone non suona. E - aggiungiamo noi - non poteva suonare.
Poteva forse offrire spiegazioni, lui - che ne era diretto Destinatario - delle apprensioni del consigliere Loris D’Ambrosio che gliele mise per iscritto nella lettera del 18 giugno 2012?   
Poteva forse offrire spiegazioni del perché, a fine ‘93, ad "aut aut" giunto al capolinea, l’allora ministro della giustizia Giovanni Conso fece un bel fascio di 300 e più provvedimenti di carcere duro, per altrettanti mafiosi, e li ridusse in cenere in qualche stufa di palazzo? D’altra parte, Conso, sul punto, aveva già dichiarato - son sempre parole nostre - che la frittata l’aveva fatta da solo, senza suggerimenti, tanto che si ritrova indagato per false dichiarazioni.        
Napolitano poteva forse offrire delucidazioni su quella caterva di documenti, a firma polizia, a firma carabinieri, a firma servizi, a firma guardia di finanza, che sin dal 1993 suonavano l’allarme antiaereo nei bunker del palazzo mettendo in guardia da un Nemico che proprio perché voleva trattare - son sempre parole nostre - si sarebbe ulteriormente inselvatichito?
Napolitano, su tutto questo, non poteva suonare. E non ha suonato.
Come è riuscito a farlo? Semplice. Non ha preso in considerazione "le carte". La sua ci appare come la deposizione orale di chi si affida alla memoria. Liberissimo di non ricordare. Liberissimo di voler dimenticare. Liberissimo d’aver dimenticato. Liberissimo di non aver chiesto a chi di dovere. Liberissimo di tagliare, a suo piacimento, quel maledetto filo d’Arianna che, se dipanato sino in fondo, avrebbe portato all’uscita dal labirinto. Non poteva addentrarsi in quella "tradizione scritta" che pure è rimasta di quegli anni. Era una consequenzialità di analisi dalla quale doveva tenersi lontano. Che gli sarebbe scappata di mano. E così ha fatto. Anche a costo, qualche volta, di dar l’impressione di ricordare troppo bene il passato remoto, e troppo poco il passato prossimo.
Diversamente, diciamolo ancora con parole nostre, da Testimone avrebbe dovuto farsi Inquisitore lui stesso di quello Stato da lui stesso oggi rappresentato.
Così si spiega tutto. Il conflitto con la Procura di Palermo, all’epoca dello svelamento delle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio, delle telefonate fra Mancino e lo stesso Napolitano. La conseguente decisione dell’Alta Corte di tombare quelle intercettazioni. La riottosità iniziale di Napolitano che di questa deposizione avrebbe fatto volentieri a meno. A cosa è servito tutto questo? E’ servito. E’ servito alla "ragion di Stato".
E’ servito a erigere una "grande muraglia" di domande non consentite, di domande non ammesse e non ammissibili, di domande cui l’alta Corte non consentiva fosse data risposta, di domande che potevano essere formulate ma potevano non essere accolte, di prerogative cui appigliarsi, platealmente o sottintendendole, di esclusioni dal processo dei mafiosi e, siccome l’appetito vien mangiando, persino dei giornalisti italiani ed esteri.
Ma quell’espressione - "aut aut" - è firmata personalmente da Napolitano. Sei lettere in tutto. Dio quanto pesano queste sei lettere.
Avrà modo di rammaricarsene un giorno il Presidente? Gli auguriamo di no. Proprio per quelle sei lettere, ci ha fatto venire alla memoria "il Presidente" di Simenon, che giunto al crepuscolo, spoglio ormai di incarichi istituzionali e intenzionato a scrivere finalmente le sue memorie "non ufficiali", vive nel suo esilio dorato in Normandia immerso fra le sue "carte", le più segrete, quelle che custodisce più gelosamente, salvo poi scoprire - ma questa è un’altra storia - che la sua governante più fedele ne trasmetteva fotocopie ai suoi Nemici che non lo avevano dimenticato, che non potevano dimenticarlo, proprio perché avevano tutto da temere per quelle memorie non "ufficiali" che si era incaponito a scrivere.
Voce dal sen fuggita che sia, dispaccio inviato a una magistratura che, piacente o nolente ai Mandarini di Regime, andrà avanti per la sua strada, l‘"aut aut", diventerà il tormentone dei libri di storia del futuro quando si occuperanno di uno Stato che trattò con la mafia. Perché la trattativa tutto fu, tranne che "presunta". Con buona pace, ancora una volta, della Ragion di Stato.

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Foto originale © Paolo Bassani

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