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lodato-saverio-big8di Saverio Lodato - 12 aprile 2013
Mi vado chiedendo da tempo cosa accadrebbe negli Stati Uniti se l’Fbi o la Dea scoprissero che un cittadino, finito sotto le loro indagini per reati molto gravi, si intrattiene amichevolmente a telefono con Obama, o con i suoi collaboratori, lamentandosi del trattamento giudiziario al quale viene sottoposto per sollecitare un escamotage a lui favorevole. Parto da qui, da questo che a tutte le persone di buon senso dovrebbe apparire interrogativo decisamente retorico, perché ritengo che sia questo il cuore vero delle violente polemiche che hanno contrapposto presidi antimafia e istituzioni negli ultimi due anni. La storia alla quale ci riferiamo è sufficientemente nota e non vale la pena riassumerla.

Basti dire che in Italia quelle telefonate fra un imputato e l’equivalente di Obama ci furono, e sono state secretate per legge. E su diretta sollecitazione del diretto interessato (l’equivalente di Obama) che a tal fine tirò in ballo, mettendo nero su bianco, un altro potere dello Stato pretendendo verità e giustizia (ad usum delphini). Ci mancherà sempre la controprova di cosa accadrebbe, in un caso analogo, negli Stati Uniti o in un qualsiasi Paese occidentale. Ma torniamo all’Italia.

La grande stampa e la grande televisione applaudirono. E applaudì la grande politica di centro, di destra e di sinistra. Si dissero tutti d’accordo. Condivisero. Si inchinarono di fronte alla perentoria iniziativa che emanava dal Colle. E fu tutta una corsa spasmodica a prendere le distanze da quei magistrati di Palermo i quali, indagando sulla trattativa fra lo Stato e la mafia, si erano imbattuti – loro malgrado – in quelle telefonate della discordia. Poche, pochissime eccezioni, riuscirono appena a disturbare quel coro che andava dicendo e scrivendo all’equivalente di Obama: “bravo”, “ben detto”, “ben fatto”.

Noi, inguaribili testardi, e per di più di testardo estremismo, riteniamo invece che quella, scritta dall’equivalente di Obama, e sottoscritta dai suoi corifei, fu la pagina più vergognosa, scandalosa e omertosa della storia delle istituzioni repubblicane, e dei rapporti fra lo Stato e la lotta alla mafia. Che forse sarà più facile dimenticare che cancellare.

Cosa si dissero in quelle telefonate, mandate al macero da un occhiuto legislatore che sembrò ispirarsi alle pagine più cupe di Orwell, l’imputato Mancino Nicola e l’equivalente di Obama? Forse non lo sapremo mai. O forse lo sapremo, se la Cassazione deciderà in tal senso di fronte al ricorso di un imputato di quella stessa indagine sulla trattativa Stato- mafia; richiesta che, nell’immediato, ci ricorda Flaiano quando diceva che da noi le cose possono anche essere tragiche, ma difficilmente sono serie.

Ma perché il lavoro fosse perfetto, gli zelanti corifei, una volta imposto (quasi per legge) il principio che la lotta alla mafia deve riconoscere nei potenti e nei rappresentanti delle istituzioni il suo “non plus ultra”, si trattava di regolare i conti con i capri espiatori. Non c’era che l’imbarazzo della scelta.

Ma chi, meglio dei giudici antimafia di Palermo, nell’Italia del malaffare e della politica paramafiosa, rappresenta il capro espiatorio ideale? Ecco allora la ministra, dimissionaria, di giustizia metter sotto accusa disciplinare il magistrato Nino Di Matteo, che continua a occuparsi di quelle indagini. Ecco allora la grande stampa e la grande televisione non dare tregua a Antonio Ingroia, che fece male a toccare i fili scoperti mafia- Stato, fece male ad accostarsi alla politica, continua a far male nell’accarezzare ancora l’idea di tenere in vita il movimento da lui formato, eccetera, eccetera,eccetera.

E’ perciò con stupore, misto a epidermico fastidio, che leggiamo, giorno dopo giorno, editoriali e affreschi di acquarellisti Cuor di Leone che sembrano essersi specializzati in questo nuovo gioco di società, il “tiro all’Ingroia”, perché tanto, una volta che il Colle ha emanato, la strada gli viene tutta in discesa. Oh quanto ci piacerebbe leggere intere pagine di questi nostrani Cuor di Leone per rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: “ cosa sarebbe accaduto negli stati Uniti in un caso del genere?” Purtroppo sappiamo che non ci daranno mai la gioia di una così piacevole lettura.

Nella Georgia degli anni trenta- lo racconta Erskine Caldwell- un povero negro, per cercare di sopravvivere, era costretto a esibirsi in un LunaPark, standosene impalato e con la bocca aperta mentre i bianchi del posto pagavano per tirargli una palla in bocca, e chi riusciva nell’impresa vinceva la posta. Il titolo del romanzo è “Georgia boy”, traduzione in italiano: il “Ragazzo di Sycamore”.

I nostri acquarellisti non si sono accorti che oggi, in Italia, i magistrati antimafia, quelli che rischiano la vita per fare un lavoro ingrato, stanno diventando, anche grazie ai loro acquarelli, gli equivalenti del ragazzo di Sycamore.

Ma forse neanche l’equivalente di Obama si aspettava che lo zelo dei suoi volontari dipendenti riuscisse a compiere simile miracolo.

Giusto per ripeterlo: ma negli stati Uniti che sarebbe successo se il Presidente fosse stato scoperto a telefono con un imputato?

Tratto da: rivoluzionecivile.it                                                                  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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