Menti raffinatissime. Di queste aveva parlato Giovanni Falcone al giornalista Saverio Lodato nella storica intervista, pubblicata su L'Unità, in cui spiegava chi c'era dietro al fallito attentato del 21 giugno 1989 all'Addaura.
Falcone già allora vedeva oltre la mafia e in quelle sue parole si comprende perché era ritenuto un magistrato scomodo ed andava fermato ad ogni costo.
Parole utili per capire anche ciò che è avvenuto trentatré anni fa, a Capaci, quando Cosa nostra uccise il giudice. Ma non era sola, come non lo è mai stata nei suoi delitti eccellenti.
Per la prima volta durante la trasmissione di La7, "Atlantide", condotta dal compianto Andrea Purgatori andata in onda il 18 maggio 2022, poi anche davanti alla Corte d’Assise di Palermo nel processo Agostino, Lodato raccontò i retroscena di quell'incontro in cui Falcone rivelò la “mente(i) raffinatissima” che scorgeva nell’immediatezza dell'attentato.
Un incontro che, aveva detto Lodato in aula, “fu sollecitato più da lui che da me nel senso che dopo quell’attentato Falcone evidentemente aveva necessità di far conoscere la sua posizione all’indomani dell’agguato. Per cui ci incontrammo oserei dire su sua richiesta nella villa dell’Addaura”. In quel periodo si era già diffuso il 'tam tam' che proprio Falcone stesso fosse l’artefice di quello che veniva definito un presunto attentato.
E quell'intervista passò alla storia. “Lui parlò del fatto che era giunto alla conclusione che secondo lui dietro cosa nostra si muoveva la presenza di ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno. Lui capì che non era soltanto farina del sacco della mafia - aveva ribadito il giornalista - Davanti a tale dichiarazione insistetti affinché Falcone mi desse un nome e un cognome in riferimento alle ‘menti raffinatissime’. E poi mi fece il nome del dottore Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde condannato a 10 anni per concorso esterno, con sentenza definitiva poi dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali dalla Cassazione, ndr) come uno di quelli che remava contro. Falcone rimase sorpreso del fatto che io non ci arrivai da solo. Non mi disse che dietro l’attentato all’Addaura c’era lui, ma disse: ‘Non l’hai capito? Bruno Contrada’. Falcone lo vedeva come un grande regista di quelle ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno”.
Giovanni Falcone alla presentazione del libro "Dieci anni di mafia" negli anni '90
Il presupposto di quella testimonianza in Corte d'Assise fu proprio la puntata con Purgatori in cui Lodato descrisse così lo scambio avuto con il giudice: “Lui mi disse ‘guarda che se la mafia decide di uccidere qualcuno, fa un programma, prende una decisione e non cambia il programma omicidiario in base a un cambiamento di abitudine della vittima’, cioè se la vittima un determinato giorno incrocia casualmente il killer che dopo due giorni dovrà ucciderlo, quest’ultimo non è autorizzato a farlo fuori. E poi aggiunge ‘io non facevo il bagno all’Addaura ogni giorno e non lo facevo allo stesso orario’; il che ci fa capire che il tutto era stato organizzato in tempi brevissimi. Quindi ciò che voleva dirmi era che vedeva pezzi dello Stato - spiegò Lodato a Purgatori -. Falcone già non credeva più da tempo alla favola che la mafia, in Sicilia, avesse decapitato un’intera classe dirigente, facendo tutto da sola, senza che lo Stato italiano fosse in grado di opporsi”.
E infine aggiunse: “Quando dissi a Falcone ‘ma allora io scrivo il nome di Contrada, perché in una situazione del genere avrebbe un effetto dirompente’, lui mi diffidò dal farlo. E mi disse che se lo avessi scritto 'attribuendomelo e dicendo che io te l’ho detto, che è un personaggio del quale non ho grande stima e fiducia, tu con me non avrai nessun altro tipo di rapporto’”.
Come abbiamo ricordato in più occasioni Contrada era molto di più del capo dei servizi segreti in Sicilia: rappresentava un sistema di potere; il più potente dell'epoca.
Lo stesso sistema che faceva capo a Giulio Andreotti, alla Dc, agli apparati dello Stato, ai servizi segreti, appunto, alle massonerie, e con ogni probabilità anche all'organizzazione segreta Gladio.
Indicando le menti raffinatissime, con poche parole, Giovanni Falcone affermava dunque che dietro a Cosa nostra vi fossero i servizi segreti, il che vuol dire un pezzo significativo dello Stato italiano.
Saverio Lodato insieme ad Andrea Purgatori © Paolo Bassani
Come disse Lodato a Purgatori nella puntata andata in onda nel maggio 2021, proprio dal fallito attentato all'Addaura divenne sempre più chiaro “che Cosa nostra era il braccio armato, il braccio militare di pezzi deviati dello Stato, dei servizi segreti, delle istituzioni, di pezzi della massoneria, di pezzi di un’imprenditoria siciliana e non solo”.
Falcone lo aveva in qualche modo ribadito anche in occasione della presentazione del libro Dieci anni di mafia (edito da Rizzoli), sempre scritto dal giornalista Saverio Lodato che nel tempo è divenuto un vero bestseller (il libro Cinquant'anni di mafia ha avuto la sua quinta ristampa).
Era il 16 settembre 1990 e l’evento si tenne a Modena, in occasione della Festa dell’Unità, Falcone con la sua solita lucidità offriva un quadro profetico e allarmante proprio sul rapporto tra mafia e Stato.
Parlava del pericolo rappresentato non solo dall’azione diretta delle cosche, ma anche dall’indifferenza e dalla complicità nascosta delle istituzioni.
“Si muore quando un dito indice, che proviene dall'interno delle Istituzioni, ti offre alla vendetta mafiosa - diceva Falcone - e ciò avviene non soltanto se tu fai un passo avanti ma se quelli che restano accanto fanno un passo indietro”.
Il magistrato sottolineava come le stragi e gli omicidi che avevano insanguinato gli anni '70 e '80 non fossero solo il frutto di un attacco mafioso, ma anche della “inerzia, l’ignavia e il disinteresse” di chi avrebbe dovuto agire e invece rimase immobile.
“Non è un caso - aggiungeva ricordando il sanguinario attacco delle mafie contro poliziotti, magistrati e giudici - se tutte le uccisioni si sono realizzate esclusivamente nei confronti delle persone che erano particolarmente esposte e lo erano non soltanto per la loro specifica attività, ma perché di fronte al loro particolare impegno c'è stata l'inerzia, l'ignavia e il disinteresse di tanti altri che avrebbero dovuto fare e che invece non hanno fatto”.
Anche alla luce di queste parole, che riproponiamo in audio ai nostri lettori, diventa ancora più drammatico e grave ciò che è avvenuto trentatré anni fa.
Giovanni Falcone avrebbe scavato fino in fondo su “menti raffinatissime” ed affini.
E' noto che nei diari pubblicati post mortem su “Il Sole 24 Ore” dalla giornalista Liliana Milella vi erano diversi riferimenti a questi scenari. Magari ulteriori tracce si sarebbero potute trovare dentro quei supporti informatici all'interno del suo ufficio. Purtroppo però qualche manina, non certo di uomini con la coppola e la lupara, entrò al Ministero di Grazia e Giustizia facendo sparire alcuni file. E poi vogliono raccontarci che nella mafia non c'è Stato.
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La rubrica di Saverio Lodato
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