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Cerchiamo di non negare l’evidenza, di smetterla di prenderci in giro all'infinito, di far finta che basterebbe ormai l’ultima piccola spintarella per scoprire come andarono davvero le cose. Una verità ufficiale, con i bolli e i timbri, protocollata per iscritto a beneficio dei posteri, con i nomi di esecutori, mandanti, fiancheggiatori, beneficiati, doppi e triplogiochisti inseriti nelle caselle giuste, non l’avremo mai.
Paolo Borsellino non morì di morte semplice, facile da spiegare, per mano di un manipolo di balordi, anche se armati sino ai denti, ma facilmente identificabili perché avevano validissimi motivi per farlo fuori.
Causali spaventose furono alla base di una strage spaventosa, per la perfezione del congegno militare, eccezionalità della dinamica, quantità di informazioni che teoricamente sarebbero dovute restare nell’indisponibilità del commando, quantità dell’esplosivo adoperato, numero di vittime, prima messe in conto poi lasciate sul selciato, sprezzante attacco alla convivenza civile in un intero quartiere cittadino.
La strage di via d’Amelio, e di conseguenza i processi che si legano ormai fra loro, trentadue anni dopo, come un'interminabile catena di Sant’Antonio, è stata definita “il più grande depistaggio giudiziario” della storia italiana. L’affermazione è talmente veritiera che nessuno dotato di un minimo di senno sente oggi di doverla contestare.
Ma oltre questo punto, il senno di molti non vuole andare. E per ragioni che sono svariate.
Per fare il più grande depistaggio eccetera eccetera occorreva inventare un pentito su misura, Vincenzo Scarantino. E Scarantino venne al mondo con le fattezze che gli vollero dare i suoi sordidi creatori.


50 anni mafia 1 4

Occorreva poi prendere per oro colato, il più a lungo possibile, le balle che via via andava raccontando su ordinazione. Il bambolotto era lì per questo.
Occorreva, ma questo sin da molto prima della strage, controllare le utenze telefoniche della famiglia Borsellino per sapere che quel giorno, a quella determinata ora, a bordo della sua blindata, il magistrato sarebbe andato a far visita alla madre. Cosa per nulla scontata.
Occorreva non prendere in considerazione la richiesta di predisporre un divieto di sosta sotto l'abitazione della madre del giudice. Atto dovuto e rituale che forse sarebbe servito a qualcosa. Non farlo fu un altro gioco da ragazzi.
Occorreva che un attimo dopo il rombo di tuono che squassò interi palazzi in via d’Amelio  - oltre ai poveri corpi di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli -, entrasse in azione la Squadretta Pulizie. Quei bonificatori solerti che si trovavano già sul posto, con il compito di mettere le mani su borsa e agenda di Paolo Borsellino.
Occorreva - come accadde puntualmente giorni dopo - che i familiari, che chiedevano conto di quell'''agenda rossa'' che conoscevano benissimo avendola vista un'infinità di volte, venissero messi scorbuticamente alla porta.
Ecco perché si parla del più grande depistaggio eccetera eccetera: perché dovevano essere coinvolti uomini in divisa, funzionari, alti e piccoli, andavano manomessi verbali, cancellate verità, registrato il falso, ascoltate telefonate.


il colpo di spugna 00

In una parola occorreva prima realizzare, poi nascondere, le dimensioni spaventose della strage spaventosa alla quale facevamo riferimento all’inizio.
L’avvocato Fabio Trizzino, che difende una parte dei familiari Borsellino, oltre a dirsi sostanzialmente convinto che la causale spaventosa della strage spaventosa fu una pista - colpevolmente negletta da chi avrebbe dovuto invece indagare per davvero -, che riportava al filone di mafia e appalti, si è detto anche certo di potere escludere qualsiasi forma di coinvolgimento dello Stato italiano: "Quella fu una strage di mafia fatta da uomini di mafia".
Come se non bastasse: "Non crederò mai che Cosa nostra corleonese potesse prendere ordini da servizi segreti piuttosto che da 'Entità' o da uno 'Stato profondo'".
Alla fine dei giochi, Paolo Borsellino sarebbe morto per interessi economici, imprenditoriali e mafiosi, minacciati dalle indagini che lui stesso aveva intrapreso dopo la strage di Capaci.
Una tesi che, come ogni altra ipotesi possibile, andrà consacrata in una sentenza definitiva.
Il che, 32 anni dopo, ancora non è accaduto.
Ma sino a quel giorno, non ce ne voglia l’avvocato Trizzino, noi la sentiremo, e la sentiamo, eccome se la sentiamo, la presenza dello Stato.
E chi meglio di interi apparati dello Stato può tenere nascoste per 32 anni le ragioni più oscene del più “grande depistaggio giudiziario” eccetera eccetera eccetera?

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La rubrica di Saverio Lodato

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