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Trenta anni, tra qualche mese saranno trentuno anni, e finalmente arriva una sentenza che dice quello che io grido ad alta voce da trenta anni, quello che lo stesso Paolo Borsellino disse a sua moglie qualche giorno prima di quel 19 luglio 1992: “Quando sarò ucciso sarà stata la mafia ad uccidermi ma saranno altri ad avere voluto la mia morte”. E quegli altri, e lui lo sapeva, erano pezzi deviati di quello stesso Stato a cui lui aveva prestato un giuramento che ha voluto mantenere fino alla morte.

La strage di Via D’Amelio è stata una strage di Stato, una delle tante stragi di Stato perpetrate nel nostro disgraziato paese da Portella della Ginestra in poi, l’Agenda Rossa è stata sottratta da uomini che vestivamo la divisa di questo Stato e non da mani di uomini della mafia, il depistaggio è stato messo in atto da uomini dello Stato.

Quello che la sentenza non dice, ma non ho ancora letto tutte le 1500 pagine delle motivazioni, è che lo stesso depistaggio è stato avallato, e nel corso di almeno due processi, dalla procura di questo stesso tribunale che oggi emana questa sentenza, quello che non dice, o non mi sembra che dica, è che la prescrizione della pena per il reato di quel depistaggio, per il quale vengono però processati soltanto gli ultimi anelli della catena di comando che quel depistaggio ha ordito e messo in atto, arriva proprio a causa dei ritardi nel corso della giustizia dovuti al depistaggio stesso.

E tutto questo non è accettabile. Non è accettabile, e lo afferma la stessa sentenza, che oggi sia ritenuto difficile, se non impossibile, condurre altre indagini ed arrivare alla verità a causa del troppo tempo passato dalla strage stessa e delle amnesie e delle contraddizioni dei testimoni, anche istituzionali, che pure la stessa sentenza denuncia.

Per una strage come quella di Via D’Amelio, che ha cambiato la storia del nostro paese, la verità va cercata, e con ogni mezzo, anche dopo cento anni, altrimenti resterà, e come una macchia indelebile, nella storia del nostro paese.

Quelle contraddizioni e quelle amnesie io, insieme al mio Movimento che ha per simbolo proprio quell’Agenda Rossa sottratta dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, mentre il corpo di Paolo giaceva, ridotto ad un tronco carbonizzato, a pochi metri di distanza e i pezzi dei ragazzi mandati al macello insieme a lui erano sparsi sul selciato di quella via D’Amelio, le denunzio da trenta anni.

Ho denunciato le innumerevoli diverse versioni date dall’ex magistrato Giuseppe Ayala sulla asportazione della borsa di Paolo che conteneva quell’agenda di cui qualcuno, anche questo indossante una divisa dello Stato, è arrivato persino a negare l’esistenza, le ho denunciate e per questo ho dovuto accettare una sentenza, in secondo grado, dello Stato, dove lo stesso ex magistrato viene implicitamente autorizzato ad affibbiarmi l’epiteto di Caino e di persona affetta da problemi mentali.

Ho denunciato le reticenze dell’allora ministro Mancino a ricordarsi di avere incontrato il primo giorno di luglio del 1992 quel Paolo Borsellino del quale poi, per coprire la sua inspiegabile amnesia, ha dovuto dire di non conoscere a quell’epoca la sua fisionomia. Quel Paolo Borsellino di cui tutti in Italia, dopo la strage di Capaci, avevano ben stampato in mente il viso.

Ho denunciato lo stesso allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per avere preteso la distruzione delle intercettazioni in cui era incappato proprio perché parlava con quel ministro Mancino allora sotto indagini in un’inchiesta. Quelle intercettazioni quel presidente avrebbe dovuto piuttosto pretendere che venissero ascoltate da tutti gli italiani perché nessuno potesse sostenere, senza la possibilità di essere smentito, che in quel colloquio il presidente della repubblica promettesse al ministro Mancino l’impunità e il sostegno nella querela che lo stesso Mancino aveva presentato nei miei confronti.

Se è vero, come hanno affermato i pubblici ministeri che quelle intercettazioni hanno ascoltato, per motivi di ufficio, prima della loro distruzione, che non contenessero nulla di penalmente rilevante, è importante, per chi è stato chiamato a rappresentare la più alta delle nostre Istituzioni, che non contenessero neanche nulla di eticamente condannabile perché questo costituirebbe un vilipendio di quelle istituzioni che un presidente della Repubblica è chiamato a rappresentare.

Oggi, dopo trent’anni di lotta, di verità nascoste e di giustizia negata, non posso accontentarmi di una sentenza che enuncia le colpe di uno Stato complice e depistatore ma senza indicarne i colpevoli ed evidenziando anzi le difficoltà, a trent’anni di distanza, di poterli individuare.

Ma come si può sperare di individuarli se sulla sparizione di quell’Agenda rossa che rappresenta la scatola nera della strage di Via D’Amelio non si è mai neanche arrivati alla fase dibattimentale di un processo, se è vero, come è vero, che quell’allora Capitano Arcangioli fotografato e ripreso con la borsa di Paolo Borsellino in mano è stato assolto, nell’unico processo specificatamente celebrato sulla sparizione di quella agenda, in fase di udienza preliminare e senza neanche arrivare al dibattimento?

Come si può sperare di avere giustizia se alla presentazione, al Borsellino Quater, di quel documento che abbiamo preparato mettendo insieme tutte le foto scattate e le riprese girate in Via D’Amelio subito dopo la strage per individuare i movimenti e le azioni delle persone presenti, i pubblici ministeri di allora si sono alzati e sono andati via?

È questa la maniera in cui si cerca la Giustizia nel nostro paese?

E oggi dovremmo accontentarci di una sentenza che, pur riconoscendo le complicità dello Stato, dice che è passato troppo tempo per potere indagare, troppo tempo per avere Giustizia? Non possiamo accettarlo, in nome di quell’Agenda Rossa, per la Verità e per la Giustizia, continueremo a combattere, e fino all’ultimo giorno della nostra vita.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

Foto © Paolo Bassani

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