di Giulietto Chiesa
Ma lo “commissaria”, cioè dichiara che lo metterà di nuovo sotto la sua tutela. Che è come dire che il “garante” torna a essere il capo e ispiratore del movimento. O di quello che ne resta. Per quanto concerne la “natura” del Movimento Cinque Stelle, il comico fondatore e co-ideatore non poteva essere più confuso e sfuggente. “Non siamo più quelli che eravamo dieci anni fa, ed è meraviglioso”, ha esclamato ieri di fronte a una telecamera nel suo albergo romano preferito, con a fianco un Luigi Di Maio esageratamente sorridente. “Io sono euforico. Il capo è lui e non rompete i c….., altrimenti ci rimettiamo tutti”. Il resto dei quattro minuti di esternazione, dedicati ai militanti che hanno votato contro le indicazioni del “capo” e hanno imposto al movimento la decisione di correre alle regionali in Calabria ed Emilia Romagna, da soli e non in alleanza con l’alleato di governo, è stato un guazzabuglio esaltato, condito di strani e surreali elogi dell’entropia, e del caos. Entrambi presentati come inevitabili e salutari. Un discorsetto che ha collocato il Movimento Cinque Stelle come il centro tra una destra che dovrebbe essere rieducata e una sinistra con la quale si possono fare “progetti meravigliosi e in grande” in un mondo che aspirerebbe a colossali e rapidissimi cambiamenti. Il ministro degli esteri italiano, che lo guardava senza pronunciare parola, è parso soddisfatto della riconferma. Ma il malessere all’interno del partito è grande e difficilmente sarà sedato da un discorso del genere. Il rating popolare che emerge da tutti i sondaggi vede il movimento in caduta libera. Questa era stata la ragione principale che aveva spinto Di Maio a cercare di evitare le due prossime consultazioni regionali, saltando un turno per scampare un ulteriore tracollo elettorale che rivelerebbe lo stato reale della crisi di consenso che colpisce il partito dopo la rottura della coalizione giallo-verde e l’inaugurazione giallo-rosa del Conte-2. Ma la “base”, cioè gli oltre 130 mila militanti tuttora formalmente ancora iscritti al sistema Rousseau (e non è detto che siano ancora così tanti, visto che la consultazione in rete ha visto la partecipazione più bassa da quando esiste il sistema di votazione, poco meno di un quarto) ha decretato che, invece, al voto si deve andare. Per giunta da soli. Con il rischio, più certo che ipotetico, di un nuovo tracollo di voti. Sotto questo profilo la scelta di Di Maio era senz’altro tatticamente più saggia, cioè meno rischiosa. La si poteva spiegare dicendo che l’elezione regionale non era così importante da esigere di sfiancare le poche forze rimaste. Lasciando così aperto l’interrogativo sulla reale forza del Movimento in questa fase travagliata. Invece il voto potrebbe - tutti gli osservatori ritengono che potrà - rivelare l’ormai insostenibile (politicamente parlando) divario tra la forza parlamentare del 32% emersa nel marzo 2018 e le percentuali quasi dovunque scese ad una sola cifra nelle ultime elezioni regionali del 2019. I miracolati di allora, quelli che entrarono in Parlamento, sanno ormai che la stragrande maggioranza non sarà rieletta in una prossima elezione politica. E stanno quindi bene attenti a non creare una situazione che potrebbe preludere a una crisi del Conte 2, con conseguente, inevitabile decisione di scioglimento delle Camere. Ma la massa degli aspiranti miracolabili, ai livelli più bassi, spera ancora in una rivincita, in un rilancio del movimento. Che potrebbe comportare, per alcuni di loro, l’accesso alle cariche pubbliche, seppure locali. Da qui la decisione della grande maggioranza dei potenziali candidati (piccola minoranza però degli iscritti sulla carta) che ha deciso di puntare sui propri interessi e di far partecipare il Movimento a elezioni dove non potrà prendere che qualche briciola. Decisione tatticamente suicida che Beppe Grillo non condivide ma che, nonostante la sua dichiarata “euforia”, sarà costretto ad attuare. Il tutto mentre la destra più o meno unita di Salvini, Meloni, Berlusconi, sale nei sondaggi e supera il 50%. Tutto il sistema mediatico del mainstream è impegnato a fermare l’ondata, ma con scarso successo. Il che significa che la trincea del Conte 2 non sarà abbandonata. In queste condizioni, davvero catastrofiche per la classe politica dominante, uno scioglimento anticipato delle Camere è l’ultima delle ipotesi prese in considerazione. Nel frattempo le ultime chances di Alessandro Di Battista di subentrare, come capo del Movimento, al posto del decotto Di Maio, sono svanite ieri. La decisione di Grillo è che Di Maio resta. Così Di Battista annuncia che partirà per l’Iran in veste di inviato speciale di un giornale italiano. E molti pensano che questo viaggio preluda a un suo distacco dal movimento. Se l’alleanza con il PD è l’unica carta che Beppe Grillo vuole giocare, per Di Battista non c’è più partita.
Tratto da: it.sputniknews.com
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