di Giulietto Chiesa
Tutti s’interrogano sui possibili esiti del voto parlamentare del 4 marzo scorso, ma nessuno è in grado di prevederne l’esito, tanto meno i tempi.
Il quadro è chiaro, pur nella sua totale oscurità: ci sono due vincitori tanto inequivocabili quanto asimmetrici. E uno sconfitto altrettanto inequivocabile. Dei due vincitori si sa che entrambi non hanno al momento attuale la maggioranza dei voti in parlamento necessaria per formare un governo.
Al centro-destra (più destra che centro, tanto che ormai, nella Terza Repubblica, sarà opportuno tornare al vocabolario primigenio, cioè destra tout court) mancano circa 50 deputati. Al Movimento 5 Stelle ne mancano addirittura una settantina. Anche ipotizzando consistenti "migrazioni" da un raggruppamento all'altro (cosa tutt'altro che impossibile visto che nella legislatura appena conclusa furono oltre 400 i parlamentari che cambiarono casacca), realizzare spostamenti di tale entità non sarà facile in poche settimane, o mesi. Il Movimento 5 Stelle ha portato in parlamento sette deputati già espulsi per varie indegnità prima del voto (gli elettori li hanno votati ugualmente, senza andare troppo per il sottile). È probabile che saranno i primi a cercare un tetto in altri gruppi parlamentari. Ma sono troppo pochi per far pendere la bilancia in una qualsiasi direzione.
Dunque il compito del Presidente della Repubblica, che è quello di conferire l'incarico a una persona che si presuma in grado di ottenere una qualche maggioranza, si annuncia tra i più difficili. Molti ritengono che sia una "mission impossible". Resta da vedere quali saranno i risultati di negoziati "sotto il tavolo", che sono sicuramente in corso ma che non sembrano al momento produrre nessun effetto pratico. Paradossalmente lo sconfitto inequivocabile delle elezioni, cioè la sinistra nel suo complesso, è il luogo della maggiore attenzione. Matteo Renzi, dimettendosi (cosa inevitabile dato il tracollo del Partito Democratico) ha detto che il suo partito se ne starà all'opposizione, lanciando una sfida all'elettorato: "ci avete abbandonato? Ebbene trovatevi il governo alternativo, se ne siete capaci". Questa la sostanza del suo discorso.
Ma non tutto il vertice del PD è d'accordo. Tanto più che le "dimissioni" di Renzi sono state da lui stesso definite in modo piuttosto strano, cioè accompagnate da numerose "avvertenze", o postille. Primo: non me ne vado subito, ma soltanto dopo che il governo sarà formato. Secondo: non ci dovranno essere inciuci con i nemici, sia quelli di destra che quelli di non si sa dove (cioè i 5 Stelle). Terzo: il nuovo segretario dovrà essere deciso dalle primarie e non da qualche riunione "attorno al caminetto".
Il significato di queste postille deve ancora essere decifrato dai suoi compagni di partito in lutto ed è meno che mai chiaro ai commentatori politici di ogni parte. L'unica cosa certa è che la relazione al prossimo, imminente Consiglio nazionale sarà tenuta dal vice segretario e non da Matteo Renzi. Ma questi ha dalla sua parte gli elettori rimasti del partito. Secondo diversi sondaggi tra gli elettori e tra gl'iscritti del Partito Democratico risulta che dal 70 al 90% (rispettivamente tra gli elettori e tra gl'iscritti) esiste una schiacciante maggioranza di contrari irriducibili a ogni rapporto con il M5S. Dunque Renzi, lo sconfitto numero uno, esprime l'opinione della maggioranza del Partito Democratico.
Bisognerà aspettare, dunque, la consultazione interna al PD per capire quale potrà essere la condotta del Presidente Mattarella. Sul fronte dei vincitori a 5 Stelle l'iniziativa del candidato Di Maio, espressa in una lunga lettera a Repubblica, non ha prodotto risultati. In sintesi un richiamo alla "responsabilità" rivolto in tutte le direzioni, con la richiesta di riconoscere la sua vittoria e di mettersi in fila dietro alle coorti — sicuramente numerose — dei vincitori. Sulla destra un tale appello non poteva smuovere nemmeno qualche fuscello. Ma esso era rivolto solo a sinistra. E, a sinistra, oltre alla sparutissima pattuglia di "Liberi e Uguali", quelli capitanati da Piero Grasso, c'è ormai solo il PD, di cui si è descritto il profondo travaglio interno. Non è escluso che Grasso e compagni siano pronti a convergere sul M5S, ma anche loro sono troppo pochi, quattro o cinque, per riempire la voragine che separerebbe una tale "coalizione" da una maggioranza parlamentare.
Resta la speranza di una ulteriore frantumazione del Partito Democratico. Il capo pugliese del PD, Emiliano, per esempio, sarebbe anche lui pronto a un abbraccio con i 5 Stelle. Ma non si muoverà prima di avere fatto i conti con gli umori interni, improntati alla vendetta contro i vincitori. I 5 Stelle, dal canto loro, hanno avviato consultazioni segrete con numerosi esponenti del PD, in una contrattazione complicata fatta di offerte di posti di rilievo nel futuro governo, ma non è dato sapere con quali risultati.
Sulla destra tutte le ipotesi di una possibile frattura della coalizione tra Salvini e Berlusconi sembrano del tutto irrealistiche. Salvini ha ottenuto da Berlusconi l'investitura come candidato premier e non c'è motivo per cui dovrebbe guardare a una coalizione con i 5 Stelle, dove perderebbe tutto, a cominciare dal premierato. Dunque l'ipotesi di tensioni interne alla destra, che pure esiste, si allontana nel tempo. Ma, anche per lui, per Salvini, c'è la voragine di cui abbiamo detto prima parlando dei 5 Stelle. Un pochino più piccola. Qualche speranza per colmarla gli potrà venire dai possibili fuorusciti del PD sul fianco destro, ed è probabile che siano già in corso negoziati analoghi a quelli in corso sull'altro fronte. Ma il panorama finisce qui. La legge elettorale, sciagurata, ha tolto dal quadro ogni sfumatura, ogni possibile invenzione. La rabbia popolare ha travolto tutto e tutti.
Non c'è soluzione. L'Europa ha già ricordato che il debito italiano deve essere ridotto e ha fatto capire che non starà ad aspettare con le braccia conserte. Mattarella avrà da ascoltare, oltre ai numeri italiani, anche quelli di Bruxelles e di Francoforte.
Tratto da: it.sputniknews.com
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